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  controcorrente  

A proposito della valutazione
delle università/2

di Vittorio Mortara

(continua dal numero precedente di Unitn)
La difficoltà di individuare e misurare il conseguimento degli obiettivi non è caratteristica propria solo delle università; personalmente ho sempre pensato (e mi pare di averlo anche scritto quando ero giovane ed avevo ancora voglia di scrivere) che sia propria di tutte le organizzazioni (anche se di alcune più di altre: pensate al povero Giovanni Paolo II che dirige una organizzazione il cui compito è quello di fare andare la gente in Paradiso); e mi sembra anche ovvio che, in mancanza di una misurazione diretta del conseguimento degli obiettivi, si possa ed anzi si debba ricorrere ad indicatori indiretti, alla misurazione cioè di qualcosa che si pensa essere in qualche modo collegata al raggiungimento degli obiettivi o che si pensa serva al (o sia indispensabile per il) raggiungimento degli obiettivi di difficile o addirittura impossibile misurazione. Ma, attenzione! Se gli indicatori sono scelti male, non sono cioè legati strettamente al conseguimento degli obiettivi, la loro dinamica avrà ben poco a che fare con il miglioramento dell'organizzazione ed anzi in qualche caso "misurerà" caratteristiche che la logica ed il buon senso ci dicono essere caratteristiche negative e non positive delle organizzazioni. Ed in questo caso più l'organizzazione risulterà "buona" sulla base degli indicatori, meno essa sarà idonea a raggiungere i suoi obiettivi o scopi che dir si voglia e più insisterà nel "valutare", peggiore risulterà essere.
E questo sembra a mio avviso essere ciò che sta avvenendo oggi nell'università italiana ed il fatto che avvenga costituisce quel mio personale incubo di cui parlavo all'inizio: la stramaledetta "cultura della valutazione" ci porta a valutare positivamente caratteristiche negative delle università e, continuando su questa strada, l'università italiana, non certamente eccelsa, diventerà sempre peggio.
Non ho sottomano l'elenco completo degli indicatori che oggi vengono utilizzati per valutare le nostre università, ma ho avuto occasione di consultarne una delle sue prime versioni e qualcosa ricordo. La maggior parte dei numerini che ci si chiedeva di fornire era tutto sommato abbastanza innocua ed aveva a che fare con il modo in cui sono spese le scarse risorse messe a disposizione. Ora, che non si sciupino, "distraggano" o rubino i pochi fondi che l'erario pubblico mette a disposizione degli atenei è questione molto importante per Ciampi & Co. e per i cittadini italiani che in ultima analisi pagano il conto, anche se ovviamente non ha nulla a che fare con ciò che rende "buona" o "grande" un'università. Se questa è la "valutazione", valutate pure! Non sarà un toccasana, ma almeno danni non ne fa.
Ma altri numerini, soprattutto tra quelli che pretendono di misurare i "risultati", sono molto meno innocui ed almeno due di essi sono tali da far rizzare i pochi, pochissimi capelli che mi restano.
Il primo attiene alla misurazione dei risultati dell'obiettivo formativo: sembra molto importante che la "mortalità" studentesca cali e che l'università perfetta, la "grande" università sia quella che riesce a trasformare tutti gli studenti che vi sono ammessi (ma che dico! - tutti gli studenti a cui è balenata per la testa l'idea di iscriversi), nel più breve tempo possibile in altrettanti laureati. Ora, a parte la natura iettatoria della terminologia adottata (ma che mortalità e mortalità! Dal punto di vista della salute, la scelta dello studente di abbandonare gli studi è probabilmente la scelta giusta: meno stress e meno preoccupazioni in una età cruciale lo faranno certamente vivere più sano e più a lungo!), a prescindere dal fatto che mi sembra esistere oggi un problema di disoccupazione intellettuale che bisognerebbe cercare di non aggravare e senza tenere conto del fatto che è troppo facile barare in materia (basta eliminare dal curriculum tutte le materie difficili ed essere "comprensivi" negli esami, perché l'indicatore di cui ci stiamo occupando punti verso il "bello stabile"), a me sembra che una delle caratteristiche delle "grandi" università sia sempre stata e sia tuttora proprio quella di far proprio il motto evangelico che recita "molti sono i chiamati e pochi gli eletti", semmai con una piccola aggiunta che lo trasformi in "molti sono i chiamati, pochi gli ammessi, pochissimi gli eletti". In altre parole, ciò che questo indicatore ci chiede è di non essere selettivi (mi rendo conto del fatto che parlare oggi di "selezione" non è politically correct, ma la cosa non mi fa né caldo, né freddo). Non capisco (specie in un paese in cui oltre il 90% dei candidati ad una maturità la consegue), ma posso anche adeguarmi. Non venite poi però a lamentarvi con me se il medico si rivelerà un assassino in camice bianco, se i managers faranno sistematicamente fallire le imprese, se la burocrazia vi perseguita, se l'avvocato vi fa andare in galera, se i ponti crollano, etc. etc.

(prosegue e termina sul prossimo numero)