no33

   personaggi   
Scrittori d'oggi:
Erri De Luca
all'Università

Autori, studiosi e critici
a confronto nel convegno
Fare letteratura oggi


Intervista di Michele Stanco a Erri De Luca


Trento, 10 maggio '01: ore 9.00. Incontro Erri De Luca nell'atrio dell'hotel dov'è alloggiato. Ci sediamo sulle poltroncine color panna e cominciamo a parlare. Ufficialmente si tratta di un'intervista all'autore. Per me - ma credo anche per lui - si tratta, più semplicemente, di uno scambio di vedute sull'oggetto-letteratura. E, tuttavia, il registratore poggiato sul tavolino accanto a noi sta a ricordarci l'ufficialità della situazione. Per me incontrare De Luca è una grossa emozione. Pur essendo stato accademicamente educato - come tutti negli anni '80 - al principio teorico della "morte dell'autore", non posso non ricredermi ora che mi tocca in sorte di assistere, in prima persona, a questa sorta di transustanziazione: la parola narrativa di De Luca si sta lentamente trasformando nel corpo e nel sangue dell'autore. Ed è un miracolo che, tra poco, si ripeterà anche di fronte a un pubblico molto più vasto. Difatti, Erri De Luca non è a Trento come viaggiatore, bensì come relatore per il convegno Fare letteratura oggi, curato da Carla Locatelli, che tra meno di mezz'ora sarà inaugurato presso la sede dell'Istituto Trentino di Cultura.

È da molto tempo che seguo la tua opera. Non posso che essere ammirato dalla versatilità della tua scrittura che si svolge su più piani e attraversa vari generi letterari: dalla narrativa alle traduzioni bibliche alla saggistica d'impegno politico. Forse il punto di convergenza tra esperienze letterarie così diverse tra loro potrebbe essere trovato in un bisogno di recupero della memoria storica...

Non so, viste da dentro non mi sembra che abbiano granché in comune. La scrittura, per me, proviene da una memoria personale. La mia memoria personale è stata continuamente infestata dall'intervento invasivo di eventi storici. La storia, almeno quella recente, non ha lasciato in pace le persone. Si è infilata dentro le famiglie, ha separato i padri dai figli, i mariti dalle mogli... È intervenuta brutalmente sulla vita personale. La mia attività... la mia insubordinazione politica, la mia partecipazione agli eventi degli anni '70 e '80 è stata perché ero coetaneo di quegli eventi e di quelle situazioni. Non sono stato un promotore o un inventore: la rivolta me la sono trovata in mezzo alla strada... credo di avere obbedito a quella chiamata, ho ascoltato quel fischio, ho aderito a quel comportamento antagonista della gioventù di allora.

Eppure, dai tuoi scritti, emerge chiaramente come la tua partecipazione e il tuo antagonismo siano stati non solo sentiti, ma anche debitamente pensati e analizzati criticamente.

Sì. Si trattava di una gioventù antagonista nei confronti di tutti i poteri costituiti. Il mondo era una moneta a due facce, ciascuna delle quali cercava di rovesciare l'altra. Quella gioventù sceglieva da che parte stare, a quale faccia aderire. Era una gioventù antagonista per temperamento, oltre che per politica. Era antagonista perché voleva mostrare la massima estraneità nei confronti di quel mondo. Cercava sempre la formula più brusca, più esplicita e meno conciliante; sabotava i poteri e in particolare le autorità dei poteri costituiti - e questo tanto nella scuola quanto nella fabbrica. Le grandi lotte di fabbrica di quegli anni cominciavano con uno scardinamento della gerarchia. Prima ancora di chiedere delle cose, si sabotava l'albero di trasmissione del potere nelle fabbriche.

... e le tue traduzioni?

Per quanto riguarda le mie traduzioni, credo che abbiano a che vedere con un desiderio di prendere alla lettera - e, dunque, ridare il posto principale a - quel formato iniziale della rivelazione che è l'ebraico antico. Di norma, le traduzioni sono belle perché sono belle nella lingua d'arrivo. Le mie traduzioni sono un po' ingessate nella lingua d'arrivo.

Qui non posso non smentirti... la lingua delle tue traduzioni è bella proprio perché lascia trasparire in filigrana questo tuo disegno poetico di recupero dell'origine. Potresti togliermi un'altra curiosità: quando ti è nata questa passione per gli studi e la lingua ebraica antica? E come ti ci sei avvicinato? È stata un'esperienza da autodidatta?

Ho cominciato una ventina d'anni fa. A quell'epoca facevo il mestiere di operaio... non era uno stare da una parte della società: era un mestiere e basta. Dopo le lotte davanti alla FIAT dell'autunno dell'80 contro le espulsioni di migliaia di operai, mi sono trovato nei miei trent'anni con quel mestiere e una vasta solitudine intorno. Ho cominciato a frugare dentro qualche antichità: forse per ostilità nei confronti di ciò che mi era contemporaneo, di ciò che mi trovavo intorno. Così mi sono imbattuto in quelle storie, e mi sono sembrate magnifiche. Lentamente, senza dover preparare esami o consegnare compiti, ma semplicemente per curiosità e per compagnia, ho cominciato a sfogliare qualche grammatica di ebraico e a farci dei piccoli progressi dentro, fino ad arrivare ad assaggiare quella lingua nel suo formato originale. Ciò ha contribuito a darmi voglia di continuare; sono divenuto un frequentatore di quelle scritture, un lettore assiduo, quotidiano (le ho lette anche stamattina). Non possiedo nessuna forma di autorità sull'ebraico antico, se non la mia continua intimità.

Possiedi l'autorità della passione, che probabilmente è più forte di qualsiasi autorità istituzionalizzata. Da quanto mi dici, mi pare di capire che ci sia un filo sotterraneo che unisce il tuo impegno rivoluzionario, i tuoi saggi politici ai tuoi studi ebraici: una sorta di antagonismo nei confronti del presente... anche il tuffarsi nel passato può essere un modo di porsi contro un presente che non si riesce ad accettare.

Il fatto curioso è che chi parte da questa premessa di dissociarsi dal presente per aderire a quel passato, poi si ritrova comunque a camminare meglio nella contemporaneità, ad essere più sposato al presente.

Molti tuoi romanzi hanno un'ambientazione mediterranea, napoletana e, dunque, sembrano nascere da una forte spinta personale e autobiografica. Tuttavia, la napoletanità della tua parola narrativa non si riduce mai a mero regionalismo o nota di colore: vi si sente un respiro molto più profondo, vi si percepisce un'eco molto più vasta. La tua Napoli è sineddoche del mondo intero, il tuo micromondo mediterraneo racchiude l'universalità della condizione umana.

Sono completamente d'accordo sull'aspetto autobiografico dei miei romanzi. Cavo storie da me stesso. Dalla vastità della vita si tirano fuori delle riduzioni che poi diventano storie - e sono storie che ho scritto innanzitutto per me. Ci tengo molto alla mia denominazione d'origine, perché sono uno estratto da lì; le mie ossa e i miei nervi vengono da lì... Ora sento meno il fatto di essere uno di Napoli... non sono più di Napoli... me ne sono andato, e chi se ne va perde la cittadinanza. Io, per esempio, ho perduto il diritto a usare il verbo tornare: quando raggiungo Napoli, ci vado, appunto, ma non ci torno. Nella quarta di copertina del mio primo libro (Non ora, non qui), Raffaele La Capria ha accostato certe mie atmosfere a quelle bergmaniane de Il posto delle fragole. Eppure, per me, quei luoghi non sono per niente posti delle fragole... sono Napoli e dintorni. Napoli è un luogo, di per sé, fantastico-letterario... un luogo il cui nome rimbalza nelle orecchie. Non si tratta di prendere il paesino - Macondo - e farlo diventare luogo del mondo. È la città stessa a portarsi dietro un'aura leggendaria.

Una città che sa trasfigurarsi da sola...

Sì, ogni predicato su Napoli può circolare ed essere credibile. Forse, è un po' come Praga o Leningrado. Vi sono luoghi che portano con sé un concentrato di storia, i fantasmi del proprio passato... Quindi, è più facile farne sentire in giro l'odore, trasmetterlo agli altri.

Un'ultima domanda, per chiudere. Le tue esperienze come lettore... Quali sono gli autori che per te hanno contato di più e quanto hanno influito sulla tua scrittura, ovvero, in che modo ti hanno connotato, a tua volta, come scrittore?

Non voglio mettere le mie pagine in alcun comparativo di minoranza con quelle lette, perché il comparativo sarebbe un mio abuso di confidenza. Ho fatto magnifiche letture, ho avuto magnifici incontri con le parole degli altri, ma non so dire se o in che modo questi incontri mi abbiano influenzato sul piano della scrittura. Non ho mai letto tutto di un autore, e non ho mai incontrato Proust. Forse perché piaceva a mia madre ed io avvertivo un bisogno di marcare una differenza. E poi, a me piacciono le storie all'aria aperta.

Con queste ultime considerazioni ce ne veniamo via, sospesi tra le storie en chambre e le storie tra mare e terraferma. Un'ultima chicca che mi - e ci - regala Erri è la storia della sua passione e del suo incontro più recente: quello con la poesia. E, dunque, nell'attesa di leggerlo in questa veste ancora inedita, risalgo con lui, in silenzio, il tratto che ci separa dal "luogo fuori S. Michele" che ci ospiterà per i giorni del Convegno.


Il convegno Fare letteratura oggi