unitn. n°70 Università degli Studi di Trento

incontro con l'autore


La prosa di Fleur Jaeggy
Incontro con la scrittrice alla Facoltà di Lettere
di Francesco Zambon

Francesco ZambonLa scuola di dottorato in Letterature comparate e studi linguistici ha organizzato il 14 dicembre scorso, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, un incontro con la scrittrice Fleur Jaeggy, che ha intrecciato con i dottorandi presenti e con gli altri intervenuti un appassionante dialogo su svariati aspetti del suo lavoro letterario.
Recensendo il suo ultimo romanzo, Proleterka (2002), Cesare Cases ha scritto che "scomparsa Elsa Morante, lei resta probabilmente la nostra maggiore scrittrice". Nata a Zurigo, ma di madrelingua italiana, Fleur Jaeggy ha vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza fra alcuni collegi svizzeri e Roma. Dal 1968 vive a Milano, dove ha iniziato la sua attività di narratrice. Il suo primo romanzo, Il dito in bocca, è stato pubblicato in quello stesso anno presso l'editore Adelphi; sempre da Adelphi sono poi usciti: L'angelo custode (1971), Le statue d'acqua (1980), I beati anni del castigo (1989), i racconti La paura del cielo (1994) e Proleterka (2002). Fra i numerosi riconoscimenti ricevuti, vanno ricordati il premio Bagutta (1990) per I beati anni del castigo e il premio Viareggio (2002) per Proleterka. La Jaeggy ha anche pubblicato diverse traduzioni e alcuni saggi su autori a lei cari come Schwob, De Quincey, Keats e Walser. I suoi esordi letterari sono stati fortemente segnati dalla vicinanza con la grande scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, di cui Fleur Jaeggy è stata amica da giovanissima e che ha frequentato fino alla sua precoce scomparsa. E molte sono le affinità fra le due scrittrici, a cominciare da quella sorta di oscillazione fra l'Italia e il rispettivo paese natale (Svizzera e Austria) che ha segnato la loro biografia e la loro stessa sensibilità. Altri autori di cui si possono riconoscere le tracce nell'opera della Jaeggy sono certamente Robert Walser e Thomas Bernhardt. Scendendo negli strati più profondi della sua visione del mondo e della sua scrittura, non va però dimenticato - come lei stessa ha ricordato nell’incontro trentino - l'influsso che ha esercitato su di lei la letteratura mistica e sapienziale d’Occidente e d'Oriente, in particolare Meister Eckhardt e Chuang-Tzu, continuamente riletti e meditati.

Fleur Jaeggy e Francesco Zambon, conferenza
alla Facoltà di Lettere, 14 dicembre 2004, foto Panato.Una diecina d'anni fa, in una presentazione de I beati anni del castigo, Iosif Brodskij osservava che vi sono due tipi di prosa: "Vi è la prosa che si rivela nelle sue ramificazioni, estensioni ed espansioni sintattiche, con lo stile che meglio viene esemplificato da Henry James o, se preferite, da Joseph Conrad, e un secondo tipo di prosa, la cui migliore esemplificazione è rappresentata da, non so, Jane Austen, con frasi molto brevi, in rapida successione, con una vita loro propria". E collocava decisamente lo stile narrativo della Jaeggy all'interno di questa seconda categoria, così definendolo: "Si ha l'impressione che sia stato scritto con una penna affilata, affilata come una lama, con la punta di quella penna, di quella lama". In effetti, la scrittura di Fleur Jaeggy è caratterizzata dalla successione di frasi brevi, secche, incisive - spesso di natura gnomica o aforistica: "reginetta della paratassi" l'ha definita ancora Cesare Cases. Le sue narrazioni, che hanno sempre un evidente sfondo autobiografico ma nulla di realistico o di diaristico, producono una inquietante sensazione di imminenza della fine, di Auflösung - per usare un termine che compare nel programma della cupa crociera descritta in Proleterka: fine del viaggio, ma anche dissoluzione. Sul piano espressivo ci troviamo di fronte quasi a una scrittura apofatica, in cui il non detto o il non dicibile generano una enorme zona d'ombra, che non è tanto la tenebra o la nube d'inconoscenza dei mistici quanto l'enorme presenza del passato e della morte.

I beati anni del castigo e Proleterka esemplificano molto bene questi aspetti della scrittura di Fleur Jaeggy. Soprattutto il secondo romanzo, forse il suo capolavoro, che narra la crociera compiuta da Venezia a Istanbul, sulla nave Proleterka, da una quindicenne insieme all'uomo che crede suo padre: Johannes, da tempo separato dalla moglie e per lei, vissuta prima con la nonna materna e poi nei collegi, quasi uno sconosciuto. Nelle aspettative della protagonista, il viaggio dovrebbe costituire da un lato un avvicinamento al padre, dall'altro una iniziazione alla vita e alla sessualità. Ma in realtà non accadrà nulla: la crociera si trasformerà a poco a poco in uno sprofondamento nel passato, tra personaggi che emergono solo per un attimo dal buio, quasi montaliane "vite strozzate". I piani temporali si accavallano e si schiacciano l'uno sull'altro, i personaggi si sovrappongono o si sdoppiano. Con trasparenti allusioni al Billy Budd di Melville e alla Nave morta di Traven, la Proleterka diventa una nave di morti, una nave fantasma: "La Proleterka sembra non avere destinazione. Naviga nel vuoto e nelle tenebre". Nel gioco dei doppi, la stessa identità dei personaggi finirà per dissolversi nell'incertezza. Molti anni dopo la morte di Johannes, la protagonista scoprirà di essere figlia di un altro uomo, che glielo rivela ormai novantenne, e di aver avuto un fratello, morto da bambino in un incidente. Nel romanzo, in qualche modo, i morti persistono nei vivi; ma i vivi sono a loro volta fantasmi abitati dalla morte nel più profondo del loro essere. La stessa nave appare sempre più come il doppio della "torretta" della casa di famiglia sul lago, con la sua severa galleria di ritratti degli antenati: un "reliquiario di fisionomie".

A tratti sembra di intravedere sullo sfondo una saga famigliare. Ma è come una saga implosa, quasi inghiottita da una mostruosa forza di attrazione verso l'oscurità e l'irrealtà: Proleterka è una "saga famigliare mancata". Di qui anche l'impossibilità per la scrittura della Jaeggy di impennarsi o di dispiegarsi in una vera e propria narrazione, che disegni personaggi e luoghi dai contorni reali, concreti. Si potrebbe azzardare al suo riguardo un paragone con la nozione fisica di "orizzonte degli eventi", espressione con cui si designano i fenomeni - tutti ipotetici, quasi visionari - che si producono nelle vicinanze di una stella che si sta spegnendo, lungo il confine oltre il quale tempo e spazio si annullano in un "buco nero". Anche la narrazione di Fleur Jaeggy si situa in una specie di "orizzonte degli eventi", in un estremo territorio del visibile che precede il collasso nella tenebra e nel gelo assoluti. Le sue frasi brevi e scheggiate sono la cifra di questa percezione della realtà: conforme alla descrizione del mondo nichilistico fornita da Ernst Jünger, quello che emerge dai romanzi della Jaeggy è "un mondo ridotto e che sempre più si va riducendo, ciò che corrisponde necessariamente a un movimento verso il punto zero". A questa sorta di non luogo in cui si spegne ogni esperienza allude in particolare il finale de I beati anni del castigo, dove la protagonista, tornando dopo molti anni nella località in cui si trovava il collegio dell’adolescenza, vi trova una clinica per ciechi: "Chiesi del collegio. Scandii il nome. Non l'ha mai sentito. Qui a Teufen, sind Sie sicher? Certo, ero sicura. Vi avevo vissuto. Per un momento la mia risposta mi parve futile. Mi consiglia di andare a St. Gallen. Là ci sono molte scuole. Ripetei ancora il nome del collegio. Mi sbagliavo, disse. Mi scusai. Questa, disse, è una clinica per ciechi. Adesso è così. Una clinica per ciechi".

Sopra, da sinistra: Fleur Jaeggy e Francesco Zambon, conferenza alla Facoltà di Lettere, 14 dicembre 2004, foto Panato.