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  incontro con l'autore  

Una letteratura di confine
I romanzi di Bettina Galvagni tra autobiografia e finzione
di Fabrizio Cambi

Nel 1997 in occasione di una lettura alla Facoltà di Lettere del suo romanzo Die Pfirsichtöter lo scrittore austriaco Alfred Kolleritsch, noto come editore della rivista Manuskripte, importante vetrina di autori anche esordienti, mi chiese se conoscevo Bettina Galvagni. Sorpreso dalla mia risposta negativa, espresse la speranza che presto anche in Italia potesse circolare l’opera di una giovanissima autrice italiana, abitante a Egna, ormai considerata nei paesi di lingua tedesca più che una promessa, trovando comunque singolare che la probabile causa di tale ignoranza fosse data in definitiva da una barriera linguistica in una comunità da considerare a tutti gli effetti bilingue. Dopo pochi mesi uscì presso Residenz Verlag di Salisburgo Melancholia, il primo romanzo di Bettina Galvagni, ventunenne italiana sudtirolese, salutata unanimemente come l’“enfant prodige della letteratura austriaca” e gratificata da importanti premi e riconoscimenti.
Nel dicembre scorso la scrittrice è stata ospite della Facoltà nel quadro dell’iniziativa “Incontro con l’autore”, organizzata dalla Cattedra di Letteratura tedesca, per presentare Persona, il secondo romanzo appena pubblicato da Luchterhand. Al numeroso pubblico di studenti, sempre sensibile al richiamo della presenza dello scrittore, in questo caso fra l’altro loro coetaneo, Galvagni in tutta la sua fragilità e semplicità confessava che, reduce dalla recente passerella alla Fiera del libro di Francoforte, si trovava per la prima volta ospite di un’istituzione di lingua italiana.
“È la cosa più spietata che abbia mai scritto, mi sono tolta la camicia davanti a  tutti e l’ho gettata via, tutti possono rosicchiare qualcosa dalla mia vita, mangiarla come si sgranocchiano le noci”. Questo il giudizio di Galvagni su Melancholia, la cronistoria autobiografica, lucida e poeticamente allucinata narrata in prima persona, di una malattia che costringe a un’infermità registrata in una tessitura di visioni, immagini, incubi il cui fondo di disperazione e dolore decanta nella scrittura, impressionistico e forse terapeutico strumento di riemersione e di recupero di barlumi di vita. La sequenza di percezioni patologiche e di sensazioni si traspone in una metamorfosi dell’anima e del corpo che sembrano aggrapparsi avidamente a cose e persone. Ma l’io messo a nudo che giunge alle soglie del baratro indossa di nuovo quella maschera che può rendere accettabile la vita addomesticata dalla malinconia e da una raffinata ed esorcizzante intelligenza. E maschera è appunto il titolo latino del romanzo Persona, dove un residuo autobiografismo è ormai calato nella fragile psiche della studentessa Lori la cui esplorazione del passato nelle sedute terapeutiche apre scenari di desolanti vuoti esistenziali in una vana ricerca di identità e dell’altro. Dagli incontri con la psichiatra Eliza, di cui Lori si innamorerà, si apprende del suicidio della madre, del precario rapporto col padre intellettuale, della passione per l’amica Anna, che si toglie la vita dopo una relazione incestuosa col padre, dell’amore per il fratello di questa e di altre attrazioni, fino al cortocircuito finale che consegna per sempre la protagonista al famoso manicomio “Steinhof” di Vienna.
Nell’archeologia dell’anima, nei labirinti della mente la maschera cade, l’inseguimento dell’altro per dare requie e senso al proprio io cessa, nella ricostruzione della propria  vita fatta alla psichiatra Lori si assume il peso di un dolore totale. Elemento compositivo e poetologico centrale dei due romanzi è la ricostruzione di un passato perché, come ha detto Galvagni in una recente intervista, “nello scrivere si tratta di ricordare, più precisamente si tratta della trasformazione del ricordo. Io scrivo perché gli altri mi ispirano lo scrivere. Sono loro a ispirarmi il loro e al tempo stesso il mio ricordo. Io li ammiro. Io odio il mio ricordo, la mia vita al confronto del loro ricordo, della loro vita”.
La poetica del ricordo, tradotta in una scrittura che indugia talvolta in un manierismo impressionistico e nel gusto dell’associazione d’immagine e di citazione, comunque bilanciato da una lingua essenziale e nitida, si rivela canone fondamentale anche in un’autrice di una nuova generazione come Bettina Galvagni che alla ricerca del passato interiore assegna una funzione anche terapeutica.
Nella letteratura austriaca contemporanea e germanofona in generale l’attenzione è condotta verso il passato, in cui le storie dei destini individuali sono occasione per un’indagine sulla storia del Novecento, sulle sue catastrofi, sulle sue ferite aperte, condotta secondo una consapevole strategia di antirimozione del silenzio e dell’assoluzione imposti dalla generazione dei padri. “Scrivere significa raccogliere frammenti, particolari, schegge di realtà che assumono rilevanza simbolica solo nel contesto e mediante la loro disposizione. Il ricordare, nel significato di tener presenti esperienze e non soltanto quelle personali, soggettive ma anche quelle storiche, sociali e collettive non è solo una categoria estetica ma soprattutto politica”, afferma Anna Mitgutsch nel suo intervento alla Facoltà di Lettere in occasione del convegno su Fare letteratura (2001) i cui atti sono usciti in questi giorni nella collana dipartimentale “Labirinti”. Nel suo ultimo romanzo La casa dell’infanzia (2000) la ricerca della Heimat e il recupero della casa perduta e delle proprie radici sono tentati dal protagonista Max Bernman che, riparato in America con la famiglia ebrea ai tempi del nazismo, si è costruito una vita di successo a New York, ma preso dalla nostalgia, perché “da sua madre aveva imparato che i ricordi erano l’unica cosa che a uno non potevano andare perduti”, e ritornato in Europa tenta vanamente di riappropriarsi del passato che nell’Austria di oggi lo respinge. In questa tendenza di rievocazione critica si potrebbero menzionare anche Robert Schindel col suo romanzo Gebürtig (1992), Michael Scharang con Auf nach America (1992), Robert Menasse con Vertreibung aus der Hölle (2002) e Jakob Haslinger con Das Vaterspiel (2000). Si tratta di opere che attestano un forte impegno civile mirato a rivitalizzare o a far scoprire per la prima volta una coscienza storica andata perduta, perché, come si dice nella presentazione del romanzo di Menasse, “in fondo in ogni epoca abbiamo sempre i medesimi maestri: la storia. E sempre noi siamo cattivi scolari”.

In alto a destra: la scrittrice Bettina Galvagni, in occasione dell’incontro presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Trento l’11 dicembre 2002;
a sinistra: Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia, dal libro
Per non dimenticare a cura di F. Ongaro Basaglia, ed. Gruppo Abele, 1998, foto di Gianni Berengo Gardin.