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  In ricordo di Enzo Perlot  

Klaus Neubert: l’entusiasmo per l’Università di Trento
Intervista a Klaus Neubert

Ambasciatore Neubert, come ha conosciuto Enzo Perlot?
Nel 1979 mi destinarono a Roma come Consigliere Stampa, proveniente da New York e mi fecero partire con un certo anticipo per essere qui già a Ferragosto perché volevano che accompagnassi tutta la troupe di giornalisti italiani al seguito del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che si recava in visita di Stato in Germania.
In quell’occasione una delle tre o quattro persone-chiave che dovevo conoscere fu proprio Enzo Perlot, perché era il Capo dell’Ufficio Stampa alla Farnesina. Andai da lui e mi presentai: Enzo Perlot aveva qualche anno più di me e, più si è giovani, più la differenza di età gioca, per cui per me egli era un collega già di un’autorevolezza che io, arrivato da due giorni a fare l’addetto stampa, certamente non presumevo per me. La cosa che notai fu una grande cordialità e semplicità, anche se era la prima volta che c’incontravamo. Parlammo di molte cose e di quello che si stava preparando, poi nel corso della visita il rapporto si consolidò. Per me Perlot era un po’ una stella polare all’inizio della mia prima “fase” romana, un punto di riferimento fisso nel senso che sapevo che lì vi era un collega esperto, non di molte parole, ma con una grande benevolenza personale, professionale e politica. La visita di Sandro Pertini fu, se non erro, la prima visita di un Capo di Stato a Berlino ancora divisa e il successo anche personale di Pertini in Germania fu enorme.

C’è un evento che ricorda con particolare affetto?
Ci eravamo visti abbastanza di frequente quando Enzo Perlot era Ambasciatore a Bonn. In questi ultimi anni, che erano anche gli anni del trasloco del Governo da Bonn a Berlino e della crisi in Jugoslavia, abbiamo avuto spesso contatti di lavoro. Ma la cosa che mi ha fatto più piacere è il vederlo qui a Roma quando è venuto a parlarmi di questa sua nuova attività per l’Università di Trento.
Era raggiante di entusiasmo e sprizzava scintille, un vulcano di idee per questo progetto. Infatti, mentre a Bonn - anche per ragioni di salute - era come tutti noi il “solito cavallo che tira la carretta”, qui, a un tratto, mi sembrava ringiovanito, ma di decenni!

Quando è stata l’ultima volta che lo ha visto o sentito?
L’ultima volta che l’ho visto è stata poche settimane prima della sua scomparsa: stavamo mettendo a punto l’accordo per l’Ateneo italo-tedesco. Siamo stati a colazione insieme con altri partecipanti a questa bellissima avventura che volevamo fare insieme. Ma proprio l’ultimo contatto che ho avuto è stato un contatto telefonico - che noi avevamo quasi due volte alla settimana. Era un “contatto di lavoro divertente” perché, come ho detto, Perlot si divertiva a fare questo lavoro, sempre ironico e senza tante parole. Abbiamo lavorato a questo progetto di Ateneo italo-tedesco in modo direi “sportivo divertito”, cercando di vincere questa partita che giocavamo non l’uno contro l’altro, ma fra le difficoltà obiettive che ogni progetto incontra sempre nella vita pratica. In fondo era questa combinazione di entusiasmo, di impegno - ma non quell’impegno serio, con la fronte corrucciata - ma “allegro”.

Che cosa faceva di lui un amico più che un collega?
Direi, per prima cosa, che l’amicizia nella nostra professione è una cosa molto particolare perché queste amicizie si basano su un modo comune di adempiere la nostra missione, che vuol dire mandare avanti delle cose comuni con questa facoltà speciale che siamo obbligati a sviluppare, cioè di capire gli interessi degli altri in modo di arrivare dove vogliamo arrivare insieme. Queste amicizie si fondano e poi hanno un carattere quasi meraviglioso per cui, anche se non ci si vede per molti anni, perché uno sta a un capo del mondo e l’altro sta agli antipodi, ci si rivede dopo cinque, dieci anni e si riprende il dialogo come se ci si fosse visti il giorno prima. C’è una fiducia di fondo che è basata sulla serietà professionale, ma anche sulla stima personale. Resiste ai tempi, a pause molto lunghe, proprio per una certa forma di benevolenza per l’interlocutore.

Qual è l’aggettivo che le sembra più appropriato per descrivere Enzo Perlot?
Credo che per Perlot un aggettivo solo non basti, perché lui, come tutte le personalità ricche, combinava varie qualità: una era quella serietà professionale del grande diplomatico che caratterizza molti dei colleghi italiani; poi, quell’aria un po’ asciutta, di poche parole, dell’Italia del Nord, con quella punta d’ironia e spesso anche di sarcasmo che permette non di ignorare, ma di mettere di lato quelle difficoltà contingenti, che conosciamo, della vita di ogni giorno e tutto questo accompagnato da questa specie di “impegno sportivo”, non accanito, non corrucciato, non ideologico; in fondo, quell’impegno da “gentleman sportsman”.

Nella foto: Enzo Perlot e il rettore Massimo Egidi.