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  In ricordo di Enzo Perlot  

Emilio Colombo: gli esordi
Intervista a Emilio Colombo

Presidente Colombo, come ha conosciuto Enzo Perlot ?
Ho conosciuto Enzo Perlot non in diplomazia, ma quando si preparava a svolgere il suo domani e questo perché noi avevamo un tramite comune. Lui, infatti, era molto amico della famiglia Tomazzoli. Perlot aveva appena terminato gli studi e vi erano vari punti interrogativi, ossia si chiedeva come meglio avrebbe potuto creare il suo domani.
Ricordo che la sua vocazione diplomatica nacque proprio durante una conversazione, non a Roma ma nel Trentino, perché io andavo sempre in vacanza nelle Dolomiti o nelle Alpi trentine. Quindi l’ho incontrato lì e fu un anno decisivo per lui, per la sua scelta. Ero più avanti negli anni, avevo già un’esperienza ministeriale in corso: ero stato all’Agricoltura, ai Lavori pubblici, poi insieme al Ministro Martino agli Esteri avevo fatto tutta la trattativa diplomatica alla Comunità Europea. Ero affascinato da questa Italia che era entrata nell’Europa, che costruiva il suo cammino con grandi difficoltà sia interne, sia esterne. Quindi ne parlavamo. Suppongo, senza presunzioni, che anche attraverso queste conversazioni sia nata la sua propensione ad una scelta difficile per un ragazzo serio che, proprio perché aveva avuto un’infanzia e una gioventù difficile, voleva che il suo avvenire fosse diverso. Fece quindi il concorso; lui aveva una grande discrezione, ma aveva anche un forte orgoglio interiore, l’ambizione di misurarsi con le cose e non “essere preso” nel vortice ed essere coinvolto. Ricordo che si preparò con grande preoccupazione e quindi superò il concorso e in tal modo iniziò la sua attività. Da allora il nostro rapporto non si è più interrotto, perché io, sia quando ero all’Agricoltura, ma soprattutto quando sono andato al Ministero del Commercio con l’Estero, al Ministero dell’Industria e poi al Ministero del Tesoro, sono sempre stato il Ministro che andava al Consiglio dei Ministri delle Comunità Economiche.
Perlot andò inizialmente a Bruxelles al Servizio Stampa quando il Capo della Rappresentanza diplomatica italiana presso le Comunità (come si chiamava allora) era l’ambasciatore Venturini e quindi ebbi la possibilità di “sperimentarlo” come collaboratore nell’esercizio delle sue funzioni. Aveva un carattere molto aperto, ilare e si era creato a Bruxelles un gruppo - un insieme di giovani diplomatici della Farnesina - che vivevano la vita, questi inizi dell’Europa, con una grande passione e una grande speranza. C’era anche Bottai…

Anche l’ambasciatore Bottai, infatti, mi ha detto che ricorda quel periodo come un periodoparticolarmente bello.
Sì, un periodo particolarmente bello. C’era un ritmo di lavoro molto intenso e molto serio che non solo si esplicava attraverso le sedute del Consiglio dei Ministri, ma anche con le sedute preparatorie che faceva il gruppo della Rappresentanza diplomatica e che avevano un seguito quando, o la mattina prima delle riunioni, oppure alla sera dopo le riunioni, ci si ritrovava a casa dell’ambasciatore Venturini: un grande europeista, molto intelligente, molto capace, con uno spirito allegro e vivace che riusciva a creare il senso della comunità, del gruppo.
Perlot era il più giovane: aveva una grande vivacità intellettuale, che non si disperdeva mai nel secondario oppure nei salamelecchi che, talvolta, accompagnano la gestualità o la ritualità della diplomazia! Sotto questo profilo non si lasciava mai dominare, non solo all’interno, con i colleghi, ma neppure all’esterno, con gli altri.
Perlot riusciva a “possedere i problemi”, a sorbirne l’essenza, senza disperdersi molto in vane chiacchiere, ma aveva la capacità di esprimersi: ecco perché ha fatto molto bene quando è stato la prima volta all’Ufficio Stampa, nei primi anni, poi quando è venuto a Roma presso il Presidente della Repubblica Saragat: un uomo di grande prestigio, che ha fatto molto per questo nostro Paese. Perlot fece bene, anche per la sua grande capacità di mantenere rapporti umani, senza nessuna pretenziosità o presunzione, anche con i giornalisti, perché non raccontava chiacchiere! Raccontava la politica alla cui elaborazione egli stesso contribuiva insieme agli altri. Questa era l’atmosfera che era familiare a tutti noi, a me, all’ambasciatore Venturini, all’ambasciatore Bottai e agli altri, atmosfera pervasa dall’idea di riuscire, ma non di riuscire noi bensì di far riuscire quell’impresa. E per questo noi eravamo facilitati perché, in fondo, tutte le altre delegazioni - specie quelle che facevano le “bizze” - erano pronte ogni momento a creare delle difficoltà o sul piano istituzionale o perché legate ai principi ancora nazionalistici o perché non capivano che le politiche comuni significavano, in ogni caso, sempre una cessione di una parte d’amministrazione della cosa pubblica a organismi internazionali. Stiamo parlando della fine degli anni ’50, inizio degli anni ’60.

C’è un evento che ricorda con particolare affetto?
Le racconto due episodi.
Perlot era al Quirinale e ricordo che Saragat fece una visita in Svezia. Ebbene, la sera che lui tornò dalla Svezia andammo a cena insieme in una trattoria a piazza dell’Orologio, che è un’antica e bella piazza romana e mi sembrava un po’ curioso, un po’ reticente, non così aperto come al solito. Gli chiesi: “Ti sei fidanzato?” E lui rispose: “Ma … così … no… forse, può darsi, ho incontrato una ragazza.” Poi ho conosciuto questa ragazza, che ha sposato e che è stata una compagna meravigliosa.
Le racconto il secondo episodio.
Sono andato la prima volta al Ministero degli Esteri negli anni ’80, avevo Perlot come capo dell’Ufficio Stampa e fu un successo sulla stampa. Tempo dopo qualcuno mi raccontò che uno dei miei successori chiamò l’ambasciatore Perlot e disse: “Ambasciatore, come si potrebbe fare ad avere una ripercussione sulla stampa così come ce l’aveva Colombo quando era lui al Ministero?” E lui rispose: “Beh, prima di tutto bisogna farla la politica!”

Quali sono le caratteristiche dell’ambasciatore Perlot che più le piace ricordare?
Io me lo immagino come se fosse seduto lì e quindi pronto a rimbeccarmi e a sorridere; con lui ho avuto un’amicizia molto rispettosa, ma vera e quindi farebbe dell’ironia sulle cose che dico, perché aveva uno spirito, il senso dell’ironia su di sé, prima di tutto, su quello che faceva che prendeva molto sul serio, ma non tanto da cadere negli eccessi, da non essere in grado di “autocriticare l’autocritica”. Egli era convinto che, attraverso gli sforzi e qualche volta le sconfitte, molte volte i successi, l’edificio andava avanti. Se non temessi un po’ la sua ironia, direi che, probabilmente, lui era in grado di sentire tutto questo proprio per causa della regione da cui proveniva, cioè per i caratteri propri degli abitanti delle regioni di confine che vivono, intanto, le diversità nel loro ambito. Il Trentino-Alto Adige, una regione così composita dove c’era sempre “il senso del rapporto con gli altri”, i confini. Tutto questo forma: De Gasperi, in fondo, ebbe questa formazione come, del resto, si dice anche di Schuman e di Adenauer.
Io poi l’ho avuto come collaboratore diretto quando sono stato Presidente del Consiglio dei Ministri. Bottai era Consigliere Diplomatico e lui Vice Consigliere Diplomatico; Bottai è riservato e Perlot lo era ugualmente, ma aveva questa innata capacità di mantenere i rapporti con gli altri, caratterialmente, senza né dare, né ricevere, tranne che questa comunicazione di idee e lo scambio di opinioni.
Poi se ne andò in Portogallo e ritornò quando Bottai divenne Segretario Generale e chiamò Perlot come Direttore degli Affari Politici; il ruolo di Direttore degli Affari Politici, nell’ambito del Ministero degli Esteri, è uno dei più delicati: attraverso la Direzione degli Affari Politici e la Segreteria Generale passano tutte le questioni importanti. Come Direttore degli Affari Politici gli orizzonti si allargavano perché non si occupava più soltanto delle questioni europee, che sono sempre state e devono essere - o dovrebbero essere - tuttora le cose più rilevanti della crescita della nazione; agli Affari Politici incominciarono i rapporti con gli Stati Uniti e con l’Est.
Da Ministro credo di averlo mandato come Rappresentante italiano presso la Nato a Bruxelles. Successivamente lo pregai di andare come Rappresentante italiano presso la Comunità Europea; lui c’era stato quando altri dirigevano, ma questa volta era lui che “doveva tenere il mestolo in mano”: i problemi erano diventati più grossi, sia sul piano economico, sia su quello politico. Pur nella sua serenità, che non era un rifugio esteriore, devo dire che era ansioso come carattere e quindi ogni problema, ogni questione da risolvere, per lui costituiva “un problema”. Fu allora che si ammalò di cuore.
Non ero presente, ma mi hanno raccontato che Kohl disse: “Ma questo sarebbe un buon ambasciatore italiano in Germania, perché parla così bene il tedesco”. Aveva un carattere così rispettoso verso un Capo di Governo, ma sapeva anche essere socievole. Fu quindi in Germania che terminò la carriera.
È sempre stato un “ragazzo giovane”, con un orgoglio personale assolutamente non impoverito dagli orpelli che, qualche volta, la carriera lascia nel carattere delle persone. Quando Perlot chiacchierava e discuteva con gli amici, con gli altri, era sempre molto spontaneo e molto libero.

Il suo legame con l’Università di Trento.
Quando è venuto a Roma ci vedevamo ogni tanto; veniva a trovarmi e sedeva lì, dove sta lei e facevamo un po’ di conversazione. Purtroppo, qualche volta eravamo i “laudatores temporis acti”, come succede con quanti vanno avanti un po’ nell’età e discutevamo con spirito critico rispetto al presente e con rimpianto rispetto al passato. Lui era un pochino più ottimista di me rispetto al futuro: mi parlava con grande entusiasmo dell’incarico all’Università. Mi prendeva in giro perché io sono da tanti anni nell’Istituto Toniolo che è l’organo che dà l’indirizzo alla Cattolica. Mi disse: “Sai, mi hanno chiamato a fare il Presidente, …tale e quale a te” e poi mi raccontava quello che faceva.
Io pensavo che l’avesse preso come un post-carriera, come un cadeau, invece mi sono accorto che seguiva i problemi ancora una volta con grande impegno: so che veniva spesso a Trento. Aveva insomma una grande serietà di fondo, ma con questa capacità di sorridere sulle cose e anche di ironizzare su se stesso e sugli altri, che è un grande limite, nel senso che evita di perdere la testa, riempirsi di sé. Il limite della misura.

Che cosa faceva di lui un amico più che un collega?
Collega: è difficile dirlo perché lui era diplomatico e io politico, ma amici certamente molto, con grande rispetto e con grande rimpianto ed un grande vuoto.

Nelle foto: in alto a sinistra: Emilio Colombo; sotto, Trento 9 luglio 2001, Enzo Perlot incontra il Presidente della Repubblica Ciampi.