Nome in codice
"opinion leader"
Il piano di formazione nasce dalle interviste al personale
di Lucia Dorna
Qualche mese fa su queste pagine Paolo Mezzena
scriveva che il "cambiamento chiama in causa la
formazione come strumento di sostegno e di
sviluppo delle competenze" e che "proprio
per il valore strategico" ad essa riconosciuto,
"si punterà d'ora in avanti ad una programmazione di
medio-lungo periodo, realizzando un piano
triennale".
Predisporre un piano di formazione significa in primo
luogo capire quali sono i bisogni formativi. Nel nostro caso
l'indagine sui fabbisogni è stata condotta
consultando una serie di fonti, alcune
interne all'università (il vertice, gli opinion
leader, i partecipanti ai corsi) ed altre esterne
(le università, il mercato della formazione,
la letteratura). La fonte che ha saputo offrire gli spunti di
riflessione più interessanti è stata senz'altro
quella degli opinion leader, ossia coloro che sanno farsi
portatori e interpreti dell'opinione di altri, almeno di quelli che più
somigliano loro: ad esempio i colleghi che lavorano nella loro stessa area,
che svolgono compiti analoghi o che hanno la loro stessa anzianità di
servizio. Sono stati intervistati venti
opinion leader, provenienti dalle aree e
dalle esperienze più diverse: vediamo cosa pensano della formazione, di
quella che è stata fatta e di quella che si farà.
La formazione dev'essere, in primo luogo, più continua e articolata: gli
interventi devono essere programmati in modo sistematico, secondo un
percorso di crescita, garantendo più
edizioni della stessa iniziativa in modo da permettere a tutti di partecipare. La
formazione inoltre dev'essere mirata ed il tiro va aggiustato innanzitutto
sulla realtà professionale. Altra cosa di
cui tener conto, per dei corsi davvero efficaci, è il livello di conoscenza ed il
ruolo dei partecipanti: è importante
"definire percorsi formativi
personalizzati" ed è necessario che il percorso sia
coe-rente con le mansioni che quella persona deve svolgere. E poi, perché
tutto deve finire una volta usciti dall'aula? Perché non prevedere dei
momenti di discussione a posteriori, per confrontarsi e per verificare i risultati
della formazione: quello che ho imparato mi è davvero servito? Perché
non poter contare su un tutor che sia presente anche dopo la conclusione
del corso e offra ai partecipanti quel supporto concreto e personalizzato (in
ufficio!) che spesso è l'unica garanzia di trasferibilità. In altre parole, non
c'è solo l'aula; la formazione si può
fare in ufficio o nelle aule self-access. E
poi ci sono gli stages: nelle altre
università, nelle imprese (grandi
entusiasmi per il programma "Leonardo") e
secondo alcuni anche negli altri uffici, per capire come lavorano i nostri
colleghi. Tutto quanto offre una possibilità
di confronto è considerato un'importante esperienza formativa.
Per quanto riguarda i contenuti, vanno bene i tradizionali interventi di
alfabetizzazione giuridica, informatica e linguistica fatti finora (anche se
per l'aggiornamento normativo si chiede più aderenza alla realtà e per
quello informatico una maggiore standardizzazione dei programmi), ma ci
sarebbe bisogno anche di qualcos'altro perché, si osserva, non c'è reale
comunicazione (non solo tra un ufficio e l'altro, ma anche all'interno
dello stesso ufficio): "la destra non sa cosa fa la sinistra". Serve anche
un'alfabetizzazione ai comportamenti organizzativi. E si va dai più tradizionali
corsi sul lavoro di gruppo, sul project - management, sull'orientamento
all'utente e sulla comunicazione, ad iniziative più innovative come
quella per imparare a "sostituire la logica dell'obbedienza con la logica del
render conto". Si è parlato molto
anche di progetti e di cambiamento (contabilità integrata, SS2,
) e di una formazione mirata allo sviluppo
delle nuove competenze.
Oltre ai corsi per tutti, ci sono poi i percorsi ad hoc. Per esempio per
i "capi": talvolta i responsabili (ma in generale l'amministrazione) non
sembrano riuscire a coinvolgere e motivare in modo adeguato il
personale. Di qui la richiesta di iniziative che
favoriscano la diffusione del senso di appartenenza e sviluppino
il coaching, cioè la capacità di
"creare senso di squadra e affiatamento" e
di insegnare ai propri collaboratori. Dai responsabili ai neoassunti, cioè da
un estremo all'altro: quasi tutti i giovani, ma anche qualcuno dei
meno giovani, hanno confessato che l'inserimento nella nostra università non
è sempre stato facile; un corso per il personale di nuova assunzione,
tenuto magari dai capi-ripartizione, avrebbe sicuramente facilitato questo
processo, consentendo, accanto al trasferimento di conoscenze, il
trasferimento della cultura aziendale e del senso di appartenenza. Inoltre, i docenti
dei corsi di formazione sono spesso dei colleghi, ma insegnare non è facile
e certamente non è un'attività che
si può improvvisare, di qui l'esigenza di formare in primo luogo i
formatori. Interventi mirati sono poi richiesti
per quelle strutture che più di altre sono caratterizzate da un significativo
rapporto con l'utenza: la Ripartizione Servizi agli Studenti e Laureati (che
deve inoltre sviluppare le nuove competenze previste dal
progetto SS2), la Biblioteca d'Ateneo e le portinerie.
Si è parlato anche dei crediti
formativi: cosa sono? Che uso intende farne l'amministrazione? Si useranno
davvero i crediti per la progressione di carriera? C'è un grande desiderio di
chiarezza, anche se per molti una cosa comunque è certa: i crediti
formativi "sono la motivazione sbagliata per fare i corsi".
Le interviste sono state l'occasione per parlare di
molte cose, non solo di formazione, e gli intervistati hanno
saputo raccontarsi con molta generosità e franchezza.
Il processo di cambiamento che ha investito la
nostra università è stato forse troppo repentino, le
vecchie competenze non servono più, le certezze di un
tempo sono venute meno e le nuove ci sono estranee. E in
un momento in cui la comunicazione diventa
fondamentale, ecco che anche il linguaggio si fa
incomprensibile
Di qui un certo smarrimento, un
senso di non appartenenza. La formazione avrà il compito di aiutare le persone
a sviluppare le nuove competenze, dovrà favorire la nascita di un
linguaggio comune, perché ci sia gioco di squadra ed il personale senta di
far parte davvero di questa università.
La formazione, come tutti noi, dovrà fare molta strada.
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