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  come cambia l'università  
Nuove regole per i concorsi a cattedra
di Enrico Zaninotto
La recente legge 210/1998 ha profondamente innovato il sistema dei concorsi per il reclutamento di professori e ricercatori. Unitn apre un dibattito che continuerà nei prossimi numeri



Chi ha una certa esperienza del funzionamento delle leggi e delle istituzioni ha, in genere, imparato a proprie spese almeno due cose. La prima è che quasi mai i disegni istituzionali, iscritti in leggi e regolamenti, funzionano nel modo in cui erano stati progettati: meccanismi idealmente validi possono adattarsi a condizioni di funzionamento diverse da quelle previste con risultati a volte molto difformi dagli obiettivi iniziali. La seconda è che il comportamento delle persone non dipende solo dalle regole: queste possono normare solo una piccola parte del funzionamento di istituzioni complesse. Accanto ad esse, svolgono un ruolo decisivo principi etici e orientamenti culturali che consentono una convergenza dei comportamenti e una condivisione del particolare modo in cui la regola è vissuta e applicata.
Queste considerazioni valgono anzitutto per capire le difficoltà incontrate dalla legge precedente: vi era un'architettura normativa che, almeno in parte, poteva essere condivisa; ma a questa si sono sovrapposte da un lato modalità di realizzazione che hanno determinato una particolare applicazione della legge (ad esempio i tempi lunghissimi intercorrenti tra i concorsi, che hanno fatto diventare, per molti candidati, una tornata concorsuale una sorta di ultimo appello); dall'altro culture e valori (connessi, ad esempio, al grado di apertura e di confronto del raggruppamento con la comunità internazionale) che hanno determinato una diversa accettabilità sociale di determinati comportamenti al momento della formazione delle commissioni e della formulazione dei giudizi.
Scrivo ciò per mettere in guardia contro una lettura astratta della norma: regolamenti, condizioni specifiche di attuazione (ad esempio, le elezioni delle commissioni avverranno in poche tornate o volta per volta?), e soprattutto il crearsi o meno di un contesto aperto e moralmente impegnato in un confronto di qualità saranno elementi determinanti nel dirci se quella che abbiamo sia una buona o una cattiva legge. Per quel che si può prevedere ora, credo comunque che sia una legge buona e rischiosa. Buona perché c'è, anzitutto, e dimostra che il quadro istituzionale può essere corretto anche in breve tempo, quando ve ne sia la volontà: e questo va a merito dell'ex ministro Berlinguer. Poi perché allarga la comunità dei giudicanti la quale, non vincolata dalla formazione di una commissione unica, potrà esprimere più varietà e consentirà di far emergere la voce dei molti che, di fronte ai giochi delle cordate e delle scuole, preferivano tenersi in disparte. Infine perché rivaluta le scelte locali, rendendo gli atenei responsabili della scelta del loro corpo docente. Una scelta controllata, è vero, da rappresentanti della comunità scientifica, ma senza che questa abbia mai la possibilità di prevalere sull'ateneo.
È comunque una legge rischiosa. L'autonomia locale ha un senso in un sistema di responsabilità che può essere generato solo da una seria competizione fra gli atenei. L'autonomia locale in un contesto chiuso al confronto competitivo avrebbe un grave potenziale distruttivo: rischierebbe di privilegiare le generazioni di docenti e ricercatori già in ruolo a scapito delle nuove generazioni, le scelte di radicamento locale contro quelle di mobilità e favorirebbe la cristallizzazione dello statu quo. In breve, insomma, la legge sui concorsi è solo un tassello per la ricostruzione di un sistema di responsabilità delle università: se questo tassello restasse isolato, si correrebbe il rischio di un'ulteriore chiusura del nostro sistema universitario. Ma ragione e sentimento mi fanno ritenere che, questa volta, non sia così.