Salvatore Lupo: "Sovranità criminale", di Cristiano Zanetti

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Salvatore Lupo e Gaetano Savatteri, foto Romano Magrone, archivio Festival dell’Economia

Il professor Salvatore Lupo, relatore al Festival dell’Economia 2013, è ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Palermo e autore di numerosi studi sulla storia della società meridionale tra ‘800 e ‘900. Per il suo libro Quando la mafia trovò l’America, storia di un intreccio intercontinentale 1888-2008 ha vinto il premio letterario Vitaliano Brancati.
Secondo il professor Lupo, oramai da tempo si parla di Stato e anti-Stato in un contesto in cui tale concetto è stato definito agli inizi degli anni ‘90 proprio in relazione alla mafia. Ma usare una simile definizione non rischia di diventare una implicita legittimazione della mafia stessa?
Lupo osserva come sia possibile inquadrare storicamente l’argomento con riferimento ad un approccio del giurista Romano Santi (che scriveva nel 1918) sulla pluralità degli ordinamenti giuridici. Secondo Santi “vivono spesso nell’ombra associazioni nelle quali l’organizzazione è quasi analoga in piccolo a quella dello Stato. Associazioni che per darsi ordinamento interno utilizzano statuti elaborati e precisi come le leggi statali e realizzano un proprio ordine come lo Stato e le istituzioni lecite”. Questa idea della statualità è quindi antica. Era ben evidente fin dalle origini del fenomeno mafioso. Romano Santi ci dà la possibilità di inserire questo concetto in un discorso storico evolutivo.
In qualsiasi società convivono quindi, da sempre, una serie di ordinamenti diversi, maggiori o minori. È interessante notare che Romano - come citato da Lupo -  parla delle associazioni in senso lato e ciò richiama ad altre associazioni che non sono quelle mafiose. Ad esempio anche i partiti possono convivere nell’ordinamento statale ma possono anche contrapporsi all’ordinamento statale. Dunque l’ordinamento minore viene tollerato dallo Stato finché serve, ma può anche entrare in conflitto laddove vi siano circostanze storiche particolari. Accordo e conflitto possono alternarsi storicamente o sovrapporsi nello stesso tempo.
Secondo Lupo tanti sono gli esempi. Cita a questo proposito la frase di un altro magistrato ottocentesco secondo cui “la mafia è il rimedio omeopatico alla criminalità”. L’omeopatia è curare il male con i suoi stessi strumenti: in questa similitudine si usano criminali non per combattere la criminalità ma per regolarla. Ricorda Lupo che il primo rimedio “omeopatico” in questo senso venne applicato nella Sicilia post risorgimentale, dopo il 1860. Visto il clima di violenza diffusa, i proprietari terrieri (e spesso anche le istituzioni) decisero di fronteggiare l’emergenza organizzando delle gang, delle bande che già allora si chiamavano cosche. Erano gruppi mafiosi incaricati di regolamentare l’uso della violenza, di proteggere la proprietà secondo un meccanismo clientelare. La regola fondante del loro operare era “favorirò gli interessi degli amici e danneggerò quelli dei nemici”. L’ordine della mafia ai nostri occhi - ma già agli occhi dei bravi liberali del 1860 secondo Lupo - ha carattere antigiuridico perché presuppone non l’uguaglianza ma l’ineguaglianza dei soggetti rispetto alla norma. Alcuni vanno tutelati ma altri no.
Possiamo dire che la mafia ha sovranità? Secondo Lupo il termine sovranità riferito alla mafia è sub-iudice, perché la sovranità della mafia è subalterna ad un’altra sovranità maggiore. Il concetto di sovranità rimanda poi a quello di territorialità. Territorialità : questo potere si esercita sul territorio. I territori degli Stati sono grandi, quelli delle mafie sono piccoli per loro natura.
Salvatore Lupo, foto Romano Magrone, archivio Festival dell’EconomiaLupo fa osservare che si tratta in effetti di spazi territoriali che un gruppo di persone può controllare diciamo così, a vista: un paese, un quartiere. Qui la mafia leva imposte e protegge: funzione esattoriale e eminentemente statale. L’imposta la chiamiamo tangente o, in gergo, pizzo. Pagare il pizzo può essere utile, può essere necessario, non pagarlo può essere rivoluzionario o almeno sovversivo. La protezione ha questo carattere: dentro queste zone assoggettate al controllo mafioso non viene consentito nessun reato. Lupo cita una esperienza personale: nei mercati tradizionali della Palermo di oggi non ci sono borseggi. Nei mercati meno tradizionali succede che qualcuno venga borseggiato o aggredito.
In un simile contesto Lupo fa notare come sia molto difficile capire la differenza tra la vittima e il complice. Molti uomini d’affari possono essere favoriti ma molti altri danneggiati: donde il carattere interclassista del fenomeno che mette assieme dei criminali di basso livello ma anche una criminalità di impresa. Il fatto che alcuni imprenditori possano essere favoriti non significa che l’imprenditorialità sia  favorita nel suo complesso. Anzi, la collettività nel suo complesso viene danneggiata.
In questo modo secondo Lupo abbiamo un primo esempio di come la mafia si modelli sullo Stato. Ve ne sono altri. Aziende di tutto il mondo si affidano a polizie private. Molto spesso queste polizie private sono composte da elementi con un background criminale. Negli ambienti latini e dell’Europa orientale ciò avviene molto spesso. Altro esempio: la struttura delle famiglie mafiose a Palermo corrisponde a quella dei commissariati di polizia. Una famiglia, un commissariato di polizia. Secondo Lupo inoltre la mafia si autorappresenta come Stato e tale rappresentazione viene utilizzata ideologicamente, ovvero: non c’è mafia senza enfasi sull’elemento protettivo. Il mafioso si presenta sempre come difensore e protettore e tutte le fonti oggettive (registrazioni ambientali e telefoniche) concordano sul principio di auto rappresentazione della mafia che afferma “noi siamo gente forte ma giusta e proteggeremo gli affari di tutti. Gli affari grazie al nostro contributo gireranno al meglio. Se useremo la violenza sarà solo in caso di estrema necessità perché con certa gente purtroppo non c’è altro mezzo” Il padrino dice ai suoi “voi dovete conoscere il vostro limite e il mio compito come capo è insegnarvi il senso del limite”. L’ordine mafioso si rappresenta quindi come retto dalla tradizione, dalla razionalità.
Lupo osserva che ciò affonda in un nostro profondo bisogno identitario: quello di avere un aggancio saldo col passato, immutabile, in cui l’ordine avviene naturalmente grazie all’autorità delle persone e non alla esattezza delle norme. In questo contesto la norma viene quindi continuamente interpretata a seconda di una applicazione per così dire adeguata al caso concreto.
In pratica però - se osserviamo la realtà - le norme della mafia non servono a risolvere i conflitti ma finiscono sempre per far prevalere la violenza. Lupo cita come il luogo più celebre della auto rappresentazione mafiosa la sensazionale scena iniziale de “Il Padrino” in cui il capo mafioso dimostra al poveretto a cui è stata aggredita pesantemente e picchiata la figlia da due giovinastri americani, che la legge dello Stato non gli darà giustizia. Sarà il padrino a dargliela se però il suo interlocutore riconoscerà che la giustizia del padrino è superiore a quella dello Stato: così la mafia interpreta se stessa, da sempre. Non c’è modernizzazione in 150 anni che abbia spostato questo punto centrale.
Per quanto riguarda la cosiddetta trattativa tra Stato e mafia al tempo della strage di Capaci: analizzando la consistenza della questione Lupo osserva che non bisogna credere che le criminalità organizzate siano forti. Lo sono solo perché trovano spazio lasciato libero dallo Stato. Un esempio lampante sta nel contrabbando della morfina i cui traffici erano in passato considerati illegali solo negli Stati Uniti. Qui in Italia si potevano organizzare quasi liberamente. Ed era questa la ragione per cui i traffici passavano dall’Italia. Vi erano trattative in passato? Certo in passato nel caso di delitti violenti molto spesso si chiedeva al mafioso di dire chi ne era l’autore. Lupo ricorda che era un mondo in cui la magistratura era soggetta al potere esecutivo. Poi il mondo è cambiato. La nostra repubblica è cambiata. È stata sancita l’autonomia della magistratura. Uno degli aspetti di democratizzazione del sistema è stato l’assunzione di una forma di controllo della magistratura nei confronti delle forze di polizia.
Quando adesso parliamo dell’inchiesta sulla trattativa Stato mafia in effetti quindi parliamo di una inchiesta delle magistratura sugli apparati di sicurezza, su quello che eventualmente hanno concesso ai mafiosi per ottenerne in cambio delle informazioni. Lupo osserva che se queste cose siano reati o no e cosa sia vero è cosa no sarà stabilito dai giudici stessi. Quindi il vero conflitto di sovranità è all’interno della repubblica italiana: chi debba tutelare la sicurezza della repubblica, messa in discussione nel 1992-93 da uno scivolamento della criminalità verso una forma terroristica, stragista.
Se il problema è questo la dizione di trattativa Stato mafia appare al giudizio di Lupo alquanto fuorviante.
Lupo ricorda anche che c’è un aspetto di cui il pubblico si dovrebbe rendere conto: nel 1992-1993 forse alcuni mafiosi vennero salvati e passarono da carcere duro a leggero (non comunque i più importanti), ma di fatto in quella circostanza le istituzioni repubblicane trionfarono poiché il quadro direttivo e intermedio di Cosa Nostra è finito in carcere come non era mai successo in 150 anni di storia. I successi dello Stato fascista, le pene inflitte dallo stesso al fenomeno mafioso, è poca cosa in confronto a quelli ottenuti dallo Stato democratico. Secondo Lupo è veramente triste che questo nostro Paese si nasconda uno dei suoi più grandi successi ottenuti dalla legalità.