Un momento della lezione inaugurale

LE RIVOLTE ARABE: VERSO UN NUOVO MODELLO POLITICO?

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Una riflessione di attualità durante la lezione inaugurale del corso di pensiero islamico
di Massimo Campanini

Inaugurando i corsi di pensiero islamico e di storia dei paesi islamici, attivati a partire dall’anno accademico 2011-2012 presso l’Università di Trento, è utile riflettere su alcuni temi di attualità che troveranno un’eco nelle lezioni.

Le rivolte che hanno scosso il mondo arabo tra la fine del 2010 e il 2011 e che potenzialmente ne potranno modificare in profondità gli assetti politici e costituzionali, soprattutto in relazione a un eventuale sviluppo democratico, sono state provocate da vari fattori, riassumibili probabilmente in tre. In primo luogo, la crisi economica ha impoverito larghe fasce della popolazione, accrescendo le sperequazioni tra ricchi e poveri e annullando le speranze, soprattutto dei giovani, di guadagnarsi una vita più degna, di trovare un lavoro, di costruirsi una famiglia, di reperire un alloggio decente. Le classi possidenti hanno continuato per decenni a saccheggiare le risorse degli Stati, patrimonializzando il potere e con esso le leve produttive, collocando ai margini della società le classi più diseredate. Non è casuale che paesi potenzialmente ricchi di risorse naturali non abbiano visto, invece, una crescita economica adeguata. In secondo luogo, la gente, e ancora in prima fila si devono collocare i giovani e le donne, ha avvertito come non più sopportabile il peso dell’autoritarismo, della mancanza di libertà di espressione e di associazione, dello svuotamento della rappresentanza e della partecipazione che i regimi del mondo arabo esercitavano per consolidare e garantire il proprio potere tirannico. Infine, la civitas tutta, da molto tempo in movimento e in cerca di aperture sociali e civili nuove che, accanto ai diritti da riconoscere alle donne, metteva in primo piano la difesa e la rivendicazione dei diritti dell’individuo e dello stesso corpo sociale, conculcati da decenni di autocrazia e di silenzio imposto agli attori civili, ha fatto deflagrare le energie troppo a lungo compresse prendendo di mira i simboli e i protagonisti dell’autocrazia, gli eterni ra’is, da decenni in sella a regimi, come quelli egiziano, tunisino, libico, siriano, yemenita, che potrebbero a ragione definirsi “monarchie repubblicane”. I protagonisti dei sollevamenti hanno spesso parlato di vere e proprie “rivoluzioni della dignità”, tese a restituire agli attori delle società civili arabe quegli spazi di partecipazione e di rappresentanza che erano stati sempre repressi.

Di fatto, le rivolte hanno cercato di trasformare lo stato nazionale moderno sorto dai processi storici di decolonizzazione e di post-decolonizzazione, ma è ancora presto per dire se le promesse si tradurranno in reali e duraturi cambiamenti. Piuttosto, due elementi sono da evidenziare che emergono sin d’ora come caratteristici e innovativi. Da un lato la partecipazione spontanea e di massa alle proteste di larghe fasce della popolazione in nome di tutti gli strati sociali. Tali “tumulti”, come possono essere chiamati alla luce di una recente categoria politologica, hanno prefigurato una nuova organizzazione della moltitudine nel senso della sperimentazione di forme di democrazia diretta. È tuttavia emerso un elemento di grave debolezza: le masse popolari che hanno avviato la primavera araba, infatti, là dove hanno ottenuto un immediato successo, come in Tunisia o in Egitto, hanno visto sfocarsi l’impeto rivoluzionario e sono state alla fine emarginate dall’evoluzione in senso istituzionale degli stessi processi di protesta; là dove hanno dovuto sanguinosamente combattere, come in Libia, Siria o Yemen, hanno dovuto anche far calcolo su interventi esterni (e la guerra umanitaria in Libia è stata tutt’altro che frutto di un’intenzione innocente da parte di chi l’ha scatenata).  L’energia libera dei movimenti costituenti ha necessità di conservare la sua purezza in confronto a coloro che cercano di strumentalizzarne lo spirito affinché “tutto cambi perché nulla cambi”. Solo un partito politico con una chiara vocazione egemonica – in senso gramsciano – può dare le garanzie necessarie affinché l’energia libera costituente non vada perduta e affinché si possa realizzare un efficace blocco tra dirigenti e diretti ispirato da chiare prospettive strategiche e tattiche. E sfortunatamente questo partito politico egemonico non è emerso a inquadrare i “tumulti”.

Inoltre, a parziale smentita di coloro (come Olivier Roy) che hanno parlato di post-islamismo, le rivolte in Tunisia, Egitto e Libia e le trasformazioni riformistiche in corso in Marocco e in Kuwait hanno visto l’affermarsi di partiti e organizzazioni islamiche, non necessariamente vincolati a un modello istituzionale (la democrazia nel senso occidentale del termine), ma intesi a riproporre quell’identità di religione e sistema sociale (Islam din wa dunya) che costituisce un aspetto qualificante della visione del mondo musulmana. Si tratta di un’esperienza di grande interesse, poiché, quello che ci si dovrebbe aspettare (dico “dovrebbe” perché non è detto affatto che le aspirazioni si traducano in pratica) è una profonda e radicale revisione del pensiero politico islamico contemporaneo che deve trovare nuovo contenuto e nuova dimensione a concetti classici quali consenso, consultazione, bene comune. In questo senso, il dibattito che si è a lungo prodotto nel mondo arabo islamico relativamente al carattere strumentale della democrazia di tipo occidentale (rispetto al carattere valoriale di una democrazia declinata in termini islamici) è indicativo di una effervescenza dottrinale che merita di venire incanalata anche in esperienze politiche fattuali. È la prospettive teorica più stimolante che, dal punto di vista del pensiero politico, presentano le rivolte in atto nel mondo arabo.