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LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO

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Tra i temi in discussione l’articolo 18 e gli strumenti per combattere la disoccupazione
di Paolo Barbieri

La proposta di riforma del mercato del lavoro italiano avanzata dal governo Monti è destinata a far discutere, nonostante un testo finale sia ancora di là da venire. 

Quel che circola di tale proposta contiene importanti segnali di innovazione così come elementi particolarmente adatti a caricarsi di profondi significati simbolici e di conflitto sociale.

Sul versante delle innovazioni, va senz’altro apprezzata l’inversione di tendenza rispetto alla legislazione del lavoro dei passati decenni, improntata ad una netta segmentazione insider-outsider, con gli outsider identificati per caratteristiche di coorte.

La riduzione delle forme contrattuali atipiche e quindi la riduzione della flessibilità “ai margini” in entrata, l’innalzamento (per altro timidissimo) del costo dei contratti a termine, segnano comunque, se verranno mantenute anche nel testo finale, una discontinuità da non sottovalutare nella valutazione della riforma. L’introduzione di una indennità assicurativa di disoccupazione è un altro passo nella direzione che si auspicava, cioè verso un moderno sistema di integrazione fra welfare e mercato del lavoro nell’ottica della cosiddetta “flexicurity”. 

Ciò riconosciuto, va anche notato come l’assicurazione contro la disoccupazione abbia una capacità di copertura estremamente ridotta, sia per coverage che per durata, e non possa considerarsi affatto la misura di garanzia del reddito “universalistica” per i senza lavoro ed i precari di cui da molto si discute e che dunque continua a mancare in Italia. Così come mancano investimenti seri in politiche del lavoro (attive e passive) in grado di portare l’Italia ai livelli Europei, cosa peraltro richiesta a suo tempo dalla BCE (Banca Centrale Europea). Il modello della flexicurity infatti si basa sulla combinazione di un mercato del lavoro universalisticamente (molto) flessibile, una robusta indennità di disoccupazione (welfare passivo) e un elevato investimento in politiche attive del lavoro (welfare attivo), dove le ultime due misure non sono meno rilevanti della prima.

La proposta governativa appare invece destinata a far discutere laddove eliminerebbe l’obbligo di reintegro del lavoratore licenziato senza giustificato motivo oggettivo. In caso di licenziamento illecito, infatti, l’ultima  versione della proposta Monti-Fornero sembra prevedere il reintegro solo qualora il giudice riconosca un motivo discriminatorio alla base dello stesso. Qualora il licenziamento per motivi economici risulti privo di tali motivazioni (ma comunque non attuato per ragioni di discriminazione) resterebbe solo un risarcimento monetario.

Ad ogni modo, anche nell’attuale versione della riforma, l’onere della prova ricadrebbe sempre sul “contraente debole” cioè sul lavoratore. Contrariamente a molte delle proposte da tempo in discussione sul tema, la proposta Monti-Fornero non prevede alcuna “compensazione monetaria” in caso di reale e giustificato licenziamento per motivi economici. Non prevede cioè di far pagare alle imprese alcun prezzo per l’incremento di flessibilità in uscita concesso loro: l’indennizzo scatta solo se un giudice valuta ingiustificato quel licenziamento.

Va riconosciuto comunque che non si parla di licenziamenti “di massa”. Ad oggi, o meglio al 2004 (Istat 2006) in Italia, i procedimenti in materia di lavoro (senza quindi le cause per “assistenza e previdenza”), esauriti con sentenza di primo grado, erano 75.789. Di questi, quelli aventi per oggetto “l’estinzione del rapporto di lavoro”, erano il 2,6%, cioè soltanto 1970 casi. Di questi 1970 provvedimenti arrivati a sentenza di primo grado, solo un 70% circa aveva per oggetto il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo oggettivo del lavoratore o della lavoratrice. Conclusi con una sentenza che accoglie il ricorso contro il licenziamento è circa il 42% dei procedimenti arrivati a sentenza (circa 800 casi), ossia circa il 60% di quelli in materia di licenziamento (1206 casi). 

A sentenza, però, ci si arriva in media dopo 800 giorni: un’enormità, e in prospettiva vi è persino il rischio che il contenzioso aumenti

Insomma, il fenomeno appare simbolicamente rilevante ma relativamente limitato nella sua estensione, almeno fino ad oggi. 

C’è comunque un aspetto poco chiaro della filosofia alla base della riforma Monti-Fornero dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Essa infatti ripropone una tesi che ebbe grande diffusione nei primi anni ’90, in cui il cosiddetto trade-off “occupazione- uguaglianza” fu consacrato dagli Oecd Job Studies (1994). In sintesi, si sosteneva che la crisi occupazionale europea e il parallelo fenomeno della scarsa crescita fossero in larga parte dovute alle eccessive protezioni offerte dalle diverse istituzioni, protezioni che rendevano problematico il “market clearing”. Tali istituzioni erano identificate nelle normative di protezione del lavoro dipendente dai licenziamenti individuali; nei sistemi di welfare e in particolare nei sussidi di disoccupazione; nei sistemi di relazioni industriali, che ponevano vincoli alla libera fluttuazione dei salari.

Impossibilità di licenziare “at will”; sussidi eccessivamente generosi (in termini di livello e durata) e tali quindi da ‘incoraggiare’ disoccupazioni più lunghe del ‘necessario’; minimi salariali eccessivi e tali da scoraggiare la creazione di occupazione, erano indicati come i responsabili dei problemi occupazionali europei (facendo di tutta l’Europa un solo fascio). Il dibattito si focalizzò in particolare sulla protezione del lavoro dipendente contro i licenziamenti individuali, letta e riproposta al pubblico come “rigidità dei mercati del lavoro europei”, alla radice della cosiddetta “eurosclerosi”: alta disoccupazione e mancata crescita. Il contraltare era l’America del nord dove la job machine reaganiana era resa possibile, così si sosteneva, dall’elevatissima flessibilità di quei mercati del lavoro.

Questa lettura conobbe sin dagli inizi diversi critici, anche all’interno della stessa economia del lavoro cosiddetta “mainstream” .Il nesso causale tra“protezione del lavoro”e “disoccupazione” in realtà non fu mai dimostrato in modo empiricamente convincente. Ogni qual volta qualche studio serio cercava una conferma empirica, l’ipotesi per cui proteggendo il lavoro dipendente si originava una più elevata disoccupazione trovava ben poche conferme solide. Piuttosto è risaputo che una riduzione delle norme a protezione del lavoro, nel breve periodo, origina sicuramente un più elevato turnover e/o una più elevata disoccupazione. Questo perché le imprese, potendo licenziare tenderanno a farlo, liberandosi di forza lavoro eccedente, poco produttiva, anziana, problematica e così via.

La stessa Oecd, infine, nei vari Employment Outlook, dovette lentamente ricredersi, arrivando - era il 2006, cioè dopo quasi 15 anni di riproposizione del trade-off incriminato - ad ammettere che l’ipotesi per cui le imprese non assumono perché non possono licenziare, e che quindi indebolendo le protezioni del lavoro si poteva originare crescita occupazionale, non reggeva all’evidenza. I problemi erano altri: in specifico, rigidità dei mercati dei prodotti e dei servizi. 

Lascia quindi perplessi riascoltare oggi l’opinione che “Le imprese hanno paura di assumere perché è molto difficile licenziare anche per ragioni economiche”. 

Eppure già Banca d’Italia, pochi anni or sono, aveva mostrato come gli alti indici di protezione del lavoro dipendente elaborati per l’Italia dall’Oecd fossero in realtà il risultato di un banale errore di classificazione (il TFR calcolato come severance pay, cioè come penale da pagare per licenziare); e sempre la stessa fonte abbia sempre sottolineato (anche quando Mario Draghi ne era Governatore) che il problema prioritario stava nella mancata crescita, nella rigidità del mercato dei servizi e dei prodotti (leggi liberalizzazioni) e che tale linea sia stata ancora recentemente ribadita dal nuovo Governatore della Banca d’Italia.

Gli stessi indici prodotti dall’Oecd, se letti accuratamente ci rivelano che già oggi, con le vigenti norme di protezione del lavoro (leggi art. 18 dello Statuto dei Lavoratori) l’indice complessivo di protezione del lavoro dipendente per l’Italia è pari a 2,58, contro il 3 della Francia e il 2,63 della Germania, mentre lo specifico sub-indice di protezione contro il licenziamento individuale (quello che sarebbe alla base della mancata crescita occupazionale italiana) in Italia è pari a 1,69 contro il 2,60 della Francia e il 2,85 della Germania.

Da anni mostriamo che il problema di questo Paese non possa essere identificato con l’impossibilità di licenziare individualmente quanto con una serie di concause che non saranno minimamente scalfite dalla riscrittura di nessun articolo 18. Tra le tante: prolungata assenza di crescita economica, burocrazie elefantiache, giustizia civile lentissima, assenza di welfare e distorsione delle politiche sociali esistenti, assetti corporativi del mercato del lavoro, deregolamentazione parziale e selettiva che ha causato segmentazione del mercato del lavoro, aumento della diseguaglianza sociale e difficoltà crescenti per i giovani di inserirsi nella società del lavoro e di compiere la transizione alla vita adulta. Ormai, evidenze di tutto questo traboccano dalle biblioteche universitarie, e questo governo sembrava intenzionato a muoversi proprio nella direzione di una riduzione del divario insider/outsider. Ma il divario fra insider protetti e outsider sotto tutelati - soprattutto in assenza di crescita economica - può essere disarticolato e la flessibilità in uscita aumentata, solo in presenza di un sistema di welfare realmente capace di fornire livelli di protezione universalistica adeguati ai rischi sociali esistenti. 

A questo punto, resta l’interrogativo del perché un governo che dovrebbe essere conscio della reale portata del punto in questione, abbia deciso di giocare questa carta altamente simbolica per le parti in causa. La risposta più ovvia sembra stare nel desiderio di rispondere alle aspettative dei “mercati finanziari internazionali”, ai quali quindi verrebbe ‘data in pasto’ una misura di politica del lavoro anti-labour - simbolicamente e retoricamente molto dirompente - in cambio di un alleggerimento delle pressioni speculative sul debito italiano, le quali sono sicuramente in grado di causare problemi economici e costi finanziari pesanti al nostro Paese. 

Ma da più parti sorge anche una diversa lettura dei fatti. Si parla di “integralismo accademico” che degrada la concertazione in consociativismo e si legge lo sterile accanimento contro un simbolo del lavoro come un “regolamento di conti” con un modello sociale che (in tutta Europa) valorizzava il lavoro come principio di coesione sociale,  invece che come merce. “Esistono tabù civilizzatori, eretti contro future derive” (Barbara Spinelli, Repubblica on line 4.4.12). È contro questi tabù la riforma in discussione? E se così fosse, davvero non ci sono obiettivi più urgenti, o più degni, per questo governo?

[Articolo scritto in data 26 aprile 2012, n.d.r.]