ERMENEUTICA RABBINICA E TRASGRESSIONE LINGUISTICA

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Le iniziative culturali per gli studenti e la cittadinanza al Collegio di merito Bernardo Clesio. La lezione sul midrash
di Massimo Giuliani

La parola midrash, in quanto termine tecnico di una più che bimillenaria tradizione religiosa (quale è il giudaismo anche a prescindere dalle sue radici bibliche), è carica di molteplici significati, che tuttavia ruotano tutti attorno a una radice verbale che indica “cercare”, “esigere”. Nel tempo essa è venuta assumendo il senso di spiegazione linguistica, indagine semantica, sollecitazione e a volte addirittura aggiustamento e manipolazione del testo. Se è vero che il popolo ebraico, auto-identificatosi come gruppo religioso a partire dal II secolo della nostra era (sebbene non tutti siano d’accordo su questa definizione), può essere detto “il popolo dell’interpretazione del Libro” o meglio dei libri sacri (Torà, Talmud, Zohar, ecc.), allora il termine midrash diventa sinonimo di “ermeneutica rabbinica” e offre una delle chiavi fondamentali per conoscere e comprendere il giudaismo in quanto tale.
Questo elementare tentativo di spiegazione del termine ha un presupposto, ben espresso dal maggior studioso di qabbalà (la mistica ebraica) del Novecento, Gershom Scholem, quando dice che “l’alfabeto è l’origine del linguaggio e al contempo l’origine dell’essere”. Scholem si rifà a teorie qabbalistiche, diffuse in epoca medioevale, per le quali Dio avrebbe creato il mondo “secondo trentadue sentieri” ossia per mezzo delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico insieme ai primi dieci numeri. Tali teorie permettono ai mistici ebrei di vedere un’infinità di connessioni tra l’alfabeto (per estensione, il linguaggio) e il mondo, o meglio i mondi, inferiori e superiori (dunque tutta la realtà, a noi visibile o invisibile). Queste teorie furono riprese nel Rinascimento anche da teologi e filosofi della cristianità - si pensi all’opera enciclopedica di Francesco Zorzi De harmonia mundi (1525) - che ritennero l’ebraico la lingua eterna parlata da Dio e dagli angeli, ma anche dagli uomini prima dell’epilogo dell’impresa nota come “torre di Babele”.
Midrash dunque indica le molteplici vie di interpretazione e i diversi metodi di esplorazione dei testi ebraici, a fini non certo estetici o accademici ma pratico-religiosi. Lo scopo resta, tra quanti coltivano il midrash dentro tale tradizione, quello di meglio comprendere la parola rivelata al fine di applicarla, di viverla così come è stata compresa nella lunga catena delle generazioni che l’hanno tramandata e commentata. I maestri di Israele hanno espresso tutto ciò con un’immagine, quella del pardes o giardino - dalle quattro consonanti di pardes deriva, in quasi tutte le lingue indo-europee, il termine paradiso – nel quale entrarono quattro saggi per “vedere” ossia per ricercare ed esplorare, ma ne uscirono in modi assai diversi: il primo ne morì, il secondo perse il senno, il terzo perse la fede e solo il quarto entrò e ne uscì integro, “in pace” dice il trattato Chaghigà. “Entrare nel pardes” è dunque un’espressione teologica che significa cimentarsi con l’arte ermeneutica, con le regole stabilite dalla tradizione stessa per ben interpretare i testi, che sono come un giardino o un orto: il giardino della conoscenza e l’orto della verità. I percorsi di questo giardino sono quattro, naturalmente, e sono indicati dall’acrostico consonantico di pardes: ‘p’ sta per peshat o senso letterale; ‘r’ sta per remez o senso allusivo; ‘d’ sta per deresh (stessa radice di midrash), che indica il senso simbolico, il significato scavato e sollecitato come quando si scava e si rivolta una zolla di terra nell’orto; ed infine ‘s’ sta per sod, ovvero il significato segreto, nascosto, a cui solo i mistici - i qabbalisti - riescono, grazie alle loro complesse norme ermeneutiche e pratiche ascetiche, ad accedere. Si comprende dunque come i testi sacri della tradizione ebraica siano approcciabili a molti livelli e interpretabili a seconda della ‘domanda’ di chi li avvicina e li studia.
Dove sta la “trasgressione” in tutto ciò? Sta nel fatto che spesso i testi sono, diciamo così, reticenti: sembrano non dirla tutta, o tacere qualcosa, o addirittura censurare qualche aspetto. Allora sono i maestri del midrash che si incaricano di fare luce. Come? Interpretando, appunto, il non-detto o il ‘detto ametà’: inventando storie che nel testo biblico non ci sono (ad esempio i motivi del litigio tra Caino e Abele); oppure permutando le lettere di una parola, quasi in forma enigmistica, e trasformando così una parola in un’altra, con altro significato, al fine di estrarre un senso più profondo o più coerente con l’insieme della frase o della stessa storia, o per ricavare un insegnamento etico; oppure ancora vocalizzando la stessa parola (che in ebraico è scritta senza vocali) in modo diverso così da farle dire qualcosa che, a livello letterale, non dice. Si tratta di dunque di vere e proprie forzature, di effrazioni e trasgressioni linguistiche, che però la tradizione accetta, anzi approva e valorizza come il contributo umano alla rivelazione, secondo il principio espresso da Rabbi Ishmael nel II secolo: “la Torà parla la lingua degli uomini”. Dunque gli uomini (e le donne, s’intende) di ogni generazione contribuiscono a “far parlare” Dio stesso nel mondo; anzi, interpretando e aggiustando e integrando, di fatto aumentano la rivelazione divina e la rendono comprensibile all’umanità (anche a chi l’ebraico non lo sa e deve affidarsi a traduzioni o a traduzioni di traduzioni). Tale è il potere del midrash e tale il fascino del pardes che non c’è da stupirsi se non tutti, anche tra i maestri, hanno la capacità di entrarvi “in pace” e di uscirne “in pace” come fece Rabbi Aqiva.