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LA TEORIA ECONOMICA È IN CRISI?

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L’incapacità di prevedere la crisi finanziaria fa riflettere gli economisti. Conversazione con Alan Kirman
di Edoardo Gaffeo

La lectio magistralis “The Crisis in Economic Theory” del professor Alan P. Kirman (Université d’Aix-Marseille III - France) ha aperto ufficialmente lo scorso 12 ottobre l’anno accademico del dottorato di ricerca in Economics and Management dell’Università di Trento. L’evento, che si è tenuto presso la sala conferenze della Facoltà di Economia, è stato promosso dal Centro interdipartimentale per la formazione alla ricerca in Economia e Management (CIFREM). In quella occasione, ho avuto il piacere di parlare con Alan Kirman dell’argomento della sua lectio.

Alan, molti commentatori hanno criticato in maniera massiccia l’abilità degli economisti nel prevedere l’insorgere, la portata e la gravità della crisi finanziaria che ha recentemente investito l’economia mondiale. Nella tua lectio magistralis hai addirittura parlato di “crisi della teoria economica”. Credi che gli economisti debbano dotarsi di nuovi strumenti concettuali e metodi d’indagine per comprendere i meccanismi di funzionamento delle moderne economie di mercato?

Come ho affermato nella mia lezione, non credo che gli economisti possano essere ritenuti responsabili di non aver previsto in maniera puntuale l’insorgere della crisi. Ritengo, tuttavia, che come professione abbiamo avuto la colpa di costruire e usare modelli nei quali questo tipo di crisi non può avvenire. Avendo sperimentato un periodo relativamente lungo di quiete sul fronte macroeconomico, gli economisti hanno cominciato a credere che i loro modelli fossero in grado di fornire un’adeguata rappresentazione della realtà. Sfortunatamente, nessun modello sarebbe stato in grado di funzionare in condizioni simili. L’insorgere della crisi, e il fatto che le sue cause non fossero minimamente prese in considerazione nei modelli correntemente utilizzati, ha messo in evidenza le debolezze del quadro teorico di riferimento e suggerito la necessità di nuovi sforzi per un suo adeguamento. Da questo punto di vista, alcuni aspetti meritano un seppur breve approfondimento.
La nozione di equilibrio normalmente usata nei modelli standard è adeguata? Se la risposta è affermativa, dovremmo essere disposti a credere che in ciascun istante tutti noi ci troviamo effettivamente in presenza di una situazione nella quale ogni mercato trova un proprio equilibrio, anche quando le statistiche segnalano tassi di disoccupazione dell’ordine del 10%. Questa è la posizione della cosiddetta Scuola di Chicago, secondo la quale chi rimane escluso dal mercato del lavoro lo fa su base volontaria, per libera scelta. Per giustificare fenomeni di distorta allocazione delle risorse, come la disoccupazione, potremmo alternativamente supporre che l’equilibrio di mercato venga periodicamente disturbato da shock esogeni. In questo caso, dovremmo essere in grado di identificare la fonte di questi shock, oltre a disporre di una teoria in grado di spiegare in quale modo il sistema economico torna al proprio equilibrio quando l’effetto dei disturbi esogeni cessa. Questo modo di interpretare la realtà è in effetti quello utilizzato dalla maggioranza degli economisti. Credo sia necessario ragionare seriamente su modelli che prendano in considerazione concetti di equilibrio macroeconomico diversi da quello standard, in particolare equilibri dinamici, oltre ad analizzare come un sistema possa raggiungere nel concreto tale stato. Ma questo dovrebbe essere solo il punto di partenza: ciò di cui abbiamo realmente bisogno sono modelli nei quali sia possibile studiare fenomeni dinamici di non-equilibrio.

Nel tuo ultimo libro (Complex Economics. Individual and Collective Rationality, Routledge, 2010) ti occupi del cosiddetto approccio complesso alla teoria economica. Di che cosa si tratta?

L’idea di fondo consiste nel pensare ad una economia come ad un sistema dinamico composto da una moltitudine di individui autonomi e che interagiscono su base strettamente decentralizzata, e riconoscere che questo tipo di sistemi non possono essere descritti come il risultato delle scelte di un ipotetico individuo medio o rappresentativo. L’economia deve essere vista come un sistema adattivo complesso, nel quale ciascun individuo reagisce, influenza ed è influenzato dal comportamento altrui. L’idea può essere mutuata da altre scienze, come la fisica statistica e la biologia, nelle quali il concetto di sistema adattivo complesso viene da tempo utilizzato con successo. Così come il comportamento aggregato di un formicaio non può essere ricondotto al comportamento di una ipotetica “formica rappresentativa”, lo studio dei fenomeni macroeconomici non può essere ricondotto all’artificio teorico di una “agente rappresentativo”. Nel libro fornisco una serie di esempi dove questo approccio emerge con forza. Gli esempi spaziano dal modello di segregazione residenziale di Schelling, al problema della contribuzione per la fornitura di beni pubblici, all’evoluzione delle relazioni tra venditori e compratori in mercati particolari come quello del pesce, per finire allo studio dei fenomeni imitativi sui mercati finanziari. Il messaggio centrale del libro è che il vero problema della teoria economica non è l’analisi dell’efficienza, ma quello del coordinamento. Come è possibile che le azioni autonome di una moltitudine di individui trovi una propria coerenza aggregata? Come si auto-organizza un mercato? E sotto quali condizione quest’ultimo improvvisamente smette di funzionare senza apparenti cause esterne o, per usare un’espressione tipica della fisica, incontra una transizione di fase? I sistemi descritti nel volume non raggiungono mai un equilibrio in senso classico. La dinamica a livello di sistema muta continuamente, passando da uno stato all’altro, e la struttura delle interazioni cambia nel corso del tempo. Un sistema economico non è una nave programmata per viaggiare su una traiettoria pre-definita, occasionalmente colpita da eventi atmosferici che la costringono temporaneamente a deviare, salvo poi tornare alla rotta originaria. La nostra nave viaggia piuttosto in acque costantemente agitate ed inesplorate.

A proposito della “cassetta degli attrezzi” di cui gli economisti dovrebbero dotarsi per poter affrontare questo cambio di paradigma, ritieni che l’integrazione di metodologie sperimentali e di simulazioni agent-based possa dare frutti tangibili?

Si, entrambi sono utili per ragioni differenti. L’utilizzo di metodi sperimentali ci aiuta a capire come effettivamente le persone in carne ed ossa prendono le loro decisioni e compiono le proprie scelte. Spesso la gente si comporta in modo diverso a quanto previsto dall’approccio assiomatico alle scelte razionali. Ciò nonostante, praticamente in tutti i modelli teorici macroeconomici di cui disponiamo gli agenti obbediscono a tali assiomi. Rilassare queste ipotesi comportamentali è condizione necessaria per poter ottenere una migliore comprensione dei fenomeni empiricamente osservati. I modelli agent-based, dal canto loro, sono strettamente legati all’idea di sistemi complessi. In essi gli agenti economici sono eterogenei, e il loro comportamento è guidato da semplici regole che dipendono in maniera adattiva dallo stato nel quale essi si trovano, così come dallo stato nel quale si trovano gli altri individui artificiali con i quali entrano in contatto. La simulazione di questo tipo di modelli ci permette di scoprire comportamenti aggregati spesso sorprendenti. La costruzione di laboratori artificiali garantisce margini di flessibilità enormi, permettendo di modificare in modo molto semplice le regole di comportamento dei singoli individui, e di verificarne le conseguenze di natura macro. Per evitare di essere accusati di costruire modelli ad hoc, tuttavia, è necessario porre una particolare attenzione nel fornire test di robustezza dei risultati.

Ritornando alla prima domanda. Alla fine, il tuo giudizio sugli economisti di fronte alla crisi è di colpevolezza o innocenza?

Credo che come economisti dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, identificando in particolare due colpe. La prima è che spesso gli economisti hanno fornito ai politici consigli pratici derivandoli da modelli che, come detto, erano costruiti in modo da non dar conto del possibile insorgere di crisi finanziarie, e hanno fatto credere che le loro proposte fossero “scientificamente” fondate, cosa che si è rivelata palesemente falsa. In secondo luogo, abbiamo abbondantemente incoraggiato l’utilizzo di strumenti finanziari che alla prova dei fatti si sono rivelati “tossici”, e incoraggiato le banche e gli altri intermediari finanziari a preoccuparsi solo del livello di rischio che tali strumenti comportavano per i loro bilanci singolarmente presi, invece che metterli in guardia sulla possibile presenza di un rischio sistemico. Sfortunatamente, questa volta gli economisti sono stati ascoltati!