foto Romano Magrone, archivio ufficio stampa Festival dell'Economia

COSTRUIRE UN ALTRO “NOI”

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Al Festival dell’Economia Robert D. Putnam e le sfide delle società multietniche
di Francesca Menna

Una società multietnica e multiculturale è certamente una società più ricca, ma la strada dell’integrazione è lunga e complessa. La sfida a cui molte società oggi si trovano di fronte è quella di riuscire a cogliere i benefici dell’immigrazione e risolvere al contempo i problemi che ne possono derivare.

Questi i temi affrontati da Robert Putnam, Malkin Professor di Public Policy presso l'Università di Harvard, nel suo intervento su “L’era di Obama e le sfide di una società multietnica”, tenuto in occasione dell’edizione 2010 del Festival dell’Economia di Trento.

Da buon accademico Putnam è partito dal concetto teorico di capitale sociale, inteso come rete di relazioni sociali che le persone costruiscono, spiegando quanto importante sia questo capitale per le comunità e per i singoli individui. Le reti sociali – ha spiegato – hanno un valore innanzitutto per le persone che vivono in quella rete, ma le relazioni hanno un effetto anche per chi vive fuori dalla comunità. Esiste una norma di reciprocità che fa sì che in una comunità con un alto capitale sociale tutti facciano qualcosa per gli altri e, nel corso del tempo, prima o poi tutti ne traggano un vantaggio.
È stato dimostrato che i Paesi che hanno più capitale sociale hanno meno criminalità, più senso civico, una vita più lunga… Negli ultimi vent’anni è quindi maturata l’idea che sia fondamentale fare molta attenzione al capitale sociale per godere dei benefici che questo produce per il singolo e per le società.

Ma in che modo il capitale sociale si interseca con uno dei cambiamenti più marcati delle nostra società, ossia la crescita dell’immigrazione e della diversità etnica? Tutte le società - ha osservato Putnam - fra vent’anni saranno più pluraliste di quanto lo siano oggi, sia perché arrivano gli immigrati sia perché questi fanno più figli. Questo porterà vantaggi, ma anche problemi. Guardando la storia, l’immigrazione ha sempre aggiunto ricchezza e creatività: tanti Nobel americani, così come diversi grandi artisti, sono immigrati o figli di immigrati; alcuni studi dimostrano, inoltre, che gruppi di lavoro più pluralisti sono più creativi; ci sono, infine, molte evidenze in letteratura che dimostrano i benefici economici dell’immigrazione.

Per mostrare l’effetto dell’immigrazione sul capitale sociale il docente ha presentato i risultati di uno studio condotto dal suo gruppo di ricerca su un campione di 30mila americani intervistati contemporaneamente all’esecuzione del censimento del 2000. Le interviste sono state raccolte in luoghi molto diversi, per grandezza, densità, livello di istruzione e di ricchezza, ma soprattutto per pluralismo etnico (da Los Angeles con la maggiore pluralità etnica al Sud Dakota con la più forte omogeneità). È stato chiesto alla gente quale fosse il proprio livello di capitale sociale, quanto si fidasse degli altri, quale fosse il grado di fiducia verso le altre razze. Il risultato di questi studi è scoraggiante: tanto più è diversificata una comunità dal punto di vista etnico tanto più alta è la sfiducia interetnica. E a crescere non è soltanto la sfiducia verso il “diverso”, ma anche verso le persone della stessa razza. La diversità produce, quindi, una sfiducia generale anche verso enti e istituzioni , e porta a chiudersi in se stessi, a isolarsi, a non costruire legami e quindi ad avere meno amici o a fare meno beneficienza.

Putnam ha naturalmente sottolineato come questi modelli non dimostrino che la diversità causi cattivi rapporti fra diverse razze e non rappresentino una tesi a sfavore della diversità o dell’immigrazione; essi dimostrano, invece, che la “diversità” è socialmente realizzata e riformulata dalla storia e dalle politiche pubbliche.
Putnam ha parlato della sua esperienza diretta, quella americana. Il modo in cui gli americani dividono il mondo – ha detto - è un costrutto sociale e, in quanto tale, può essere decostruito. Sulla scorta di esempi personali ha spiegato che cosa significhi: quarant’anni fa il matrimonio tra un’italo-americana e un irlandese-americano era considerato un matrimonio misto, nonostante i coniugi fossero entrambi cattolici. Oggi non lo è più: questo non significa che le due persone abbiano rinunciato alla proprio identità, ma semplicemente che gli americani hanno decostruito questa linea di separazione.
L’esercito americano offre un ulteriore esempio di decostruzione: una volta – ricorda Putnam – l’esercito segregava molto certi gruppi, anche in modo violento; dagli anni ’60-’70, invece, è diventato, da un punto di vista sociologico, un ottimo esempio di integrazione.

In America la decostruzione è avvenuta in molti modi. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama - ha detto Putnam – è uno che cerca di vedere i nessi fra le persone dove altri hanno visto solo conflitti. Egli rappresenta l’immigrazione, è egli stesso una sintesi di gruppi etnici diversi ed è quindi il risultato di ciò che la società americana ha fatto nel passato. Ogni vent’anni arrivavano nuovi gruppi: dapprima si creavano problemi, poi si imparava a conoscersi e, infine, si dimenticavano le differenze. A quel punto ne arrivavano di nuovi e si ricominciava.
È quello che succede oggi in Italia e in molti Stati europei. Forse qui - ha affermato lo studioso - sembra tutto più difficile perché il problema è più recente, mentre l’America ha già vissuto il processo di immigrazione, di assimilazione e, infine, di integrazione. La cosa importante è capire che non è necessario rinunciare alla propria identità per essere un buon cittadino in un altro Paese.

Stimolato da alcune domande, Putnam ha approfondito ulteriormente gli aspetti del multiculturalismo e delle connessioni sociali, che - ha spiegato - sono di tipo diverso. Nella letteratura accademica si parla di legami tra simili, il capitale sociale di tipo bonding, e tra persone dissimili, quello di tipo bridging. In una società moderna c’è bisogno di entrambi. Il capitale di tipo bridging è naturalmente più difficile da costruire. La storia ha dimostrato che gli immigrati all’inizio si cercano sempre nell’intento di creare capitale sociale di tipo bonding, per compensare l’isolamento che deriva dall’aver lasciato la propria terra. Questo atteggiamento è sempre stato però preludio alla creazione di legami più stretti verso il resto della società, quindi verso capitale sociale di tipo bridging. L’America è stata molto recettiva, il multiculturalismo ha associato legami di tipo bonding e di tipo bridging, ed è così che si è creato un nuovo “noi”, ha affermato Putnam.
La sfida è dunque, anche per l’Europa, quella di beneficiare dei vantaggi dell’immigrazione, ma “risolvere” al contempo i problemi che questa comporta. È un compito difficile: i leader pensano spesso che gli immigrati debbano diventare come noi, ma non è così, né siamo noi a doverci trasformare per essere più simili a loro. Per trarre il meglio dalla diversità bisogna superare i conflitti e creare una nuova identità: è di questo che l’Europa ha bisogno. Deve essere possibile - ha concluso Putnam - essere un “noi” diverso.