IL CORAGGIO DELL’IMPOSSIBILE

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Carlo Michelstaedter, filosofo, poeta e artista, a cento anni dalla morte
di Fabrizio Meroi

Cento anni ci separano ormai dalla scomparsa di Carlo Michelstaedter, filosofo, poeta e artista ebreo nato a Gorizia nel 1887 e morto suicida, nella stessa città giuliana, nel 1910. Eppure - in singolare sintonia con quella contrazione della dimensione temporale che rappresenta uno dei tratti distintivi del suo pensiero - sembra che la sua voce risuoni oggi con la stessa forza di allora. Ed è una voce, quella di Michelstaedter, che è davvero difficile non ascoltare.

Da quel fatale 17 ottobre del 1910, giorno in cui Michelstaedter si tolse la vita sparandosi un colpo di rivoltella, la sua figura e la sua opera sono state oggetto di svariate e talora assai divergenti interpretazioni. Iniziò Giovanni Papini, che pochi giorni dopo il suicidio - non avendo peraltro letto, per sua esplicita ammissione, neanche una riga del goriziano e basandosi, invece, solo sulle testimonianze di amici comuni - istituì senza esitazioni un nesso costitutivo tra i princìpi teorici e la decisione estrema, elaborando così quella tesi del ‘suicidio metafisico’ che tanta fortuna avrebbe avuto nei decenni seguenti. Vennero poi le letture di altri tra gli esponenti più significativi della cultura italiana del primo Novecento, da Scipio Slataper a Emilio Cecchi, da Giuseppe Antonio Borgese a Giovanni Amendola: letture che, seppure non prive di qualche fraintendimento, permisero di cominciare a fondare il riconoscimento della grandezza di Michelstaedter su basi più solide di quelle papiniane. Celebre è la stroncatura operata nel 1922 da Giovanni Gentile, ‘campione’ dell’attualismo, che sulle pagine della «Critica» imputò a Michelstaedter l’assenza di qualsiasi «concetto spiegato e filosofico». Ma il rapporto tra Michelstaedter e l’attualismo non può essere considerato, in verità, solo alla luce della severa recensione di Gentile: Gaetano Chiavacci, in particolare, realizzerà negli anni una sintesi originale – anche se per certi versi contraddittoria – tra le istanze attualistiche (da lui fatte proprie) e la filosofia dell’amico goriziano (del quale curerà, nel 1958, anche l’edizione delle “Opere” presso Sansoni). Negli anni Quaranta e Cinquanta si affermano le interpretazioni di carattere ‘esistenzialistico’, mentre a partire dagli anni Sessanta, con la comparsa delle prime monografie, la critica michelstaedteriana si orienta principalmente in due direzioni – non sempre, però, nettamente distinte – che possono essere definite, rispettivamente, di impronta ‘spiritualistica’ e ‘materialistica’. Negli anni più recenti, infine, di Michelstaedter si sono occupati – oltre a numerosi studiosi e a Sergio Campailla, curatore dell’edizione Adelphi delle “Opere di Carlo Michelstaedter” che giungerà a compimento proprio nei prossimi mesi, con l’uscita del volume degli Scritti vari e la ristampa dell’ “Epistolario” arricchito di nuovi documenti - intellettuali come Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Roberta de Monticelli e Claudio Magris (che, tra l’altro, all’amicizia tra Carlo Michelstaedter ed Enrico Mreule ha dedicato nel 1991 il bellissimo romanzo “Un altro mare”): voci importanti, che hanno contribuito in maniera decisiva al definitivo inserimento di Michelstaedter tra i maggiori pensatori europei del secolo da poco concluso.

Ma, se un’occasione come il centenario di quest’anno può essere utile, in sede squisitamente storiografica, per tentare di stilare il bilancio di una fortuna critica piuttosto estesa nel tempo e ricca di spunti suggestivi, ancora più preziosa appare la possibilità - se non la necessità - di rileggere direttamente i testi di Michelstaedter, di riascoltare - appunto - la sua voce. E Michelstaedter ci parla, certamente, con le sue poesie, specialmente con i versi dell’ultimissimo periodo, quelli dei “Figli del mare” e del canzoniere “A Senia”, altissimo esempio di trasposizione di contenuti teorici in forma lirica. Ci parla, Michelstaedter, anche con la sua produzione grafica e pittorica, che costituisce un aspetto tutt’altro che secondario dell’opera complessiva, dagli interpreti a lungo trascurato - anche perché poco noto – ma ora pienamente riconosciuto in tutta la sua rilevanza (straordinaria, in particolare, è la serie degli “Autoritratti”). Ma, soprattutto, Michelstaedter ci parla con i suoi scritti maggiori, ossia il “Dialogo della salute”, un’intensa e serrata meditazione sui grandi temi della vita e della morte, e “La persuasione e la rettorica”, che avrebbe dovuto essere la sua tesi di laurea all’Istituto di Studi Superiori di Firenze e che invece, spedita pochi giorni prima del suicidio e mai effettivamente discussa, diventerà ben presto ‘il libro filosofico di Michelstaedter’. In esso trova formulazione e sviluppo l’intuizione fondamentale del suo autore: dominata da una cieca volontà di «continuazione» nel futuro e asservita ai «bisogni» che di questa sono il naturale prodotto, la «qualunque vita» che noi tutti viviamo è una forma di esistenza del tutto illusoria, che sembra allontanarci dalla morte ma che in realtà, fondandosi sul timore della propria cessazione, alla morte non fa che avvicinarci costantemente. La condizione umana è dunque, costitutivamente, il luogo dell’inappagamento, dell’illusione e dell’inautenticità. L’unico modo per uscirne, per sfuggire alla dimensione della «rettorica» e per accedere a quella della «persuasione», sarebbe quello di rinunciarvi; ma, in tal caso, l’esito è – evidentemente e coerentemente – quello della scelta volontaria di darsi la morte. E qui la riflessione di Michelstaedter sembra imboccare un vicolo cieco (e, va aggiunto, sembra giustificare le interpretazioni che la riducono a una sorta di ‘pensiero del suicidio’). Sennonché è proprio a questo punto che tale riflessione si svolge nella direzione più significativa e originale: tutta l’opera e tutta la vita di Michelstaedter testimoniano la dolorosa esigenza di riuscire a raggiungere una forma di «persuasione» senza ricorrere alla morte, confrontandosi invece con la «rettorica» della vita quotidiana. Precisamente in tal senso deve essere intesa l’esortazione a «vedere ogni presente come l’ultimo» (cioè a rinunciare all’inganno del futuro e delle vuote speranze che esso porta con sé), a «tutto dare e niente chiedere» (cioè a pagare il nostro debito verso la giustizia e, contemporaneamente, a uscire dalla perversa logica del bisogno), a «esser persuasi e persuadere» (cioè a essere capaci di comunicare il nostro ideale agli altri), a «fare - infine - di se stessi fiamma». È chiaramente, questa, un’esortazione alla quale è forse impossibile rispondere; ma quello che Michelstaedter ci chiede di avere è proprio, in ultima istanza, il «coraggio dell’impossibile».