SUICIDIO E GLOBALIZZAZIONE

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L’analisi sociologica del suicidio dopo Durkheim. Conversazione con Marzio Barbagli
di Domenico Tosini

Marzio Barbagli è professore di Sociologia all’Università di Bologna. È uno dei massimi studiosi di Sociologia della devianza. Il 24 novembre scorso è stato invitato dalla Facoltà di Sociologia di Trento a presentare il suo recente volume sul suicidio, dal titolo Congedarsi dal mondo: il suicidio in Occidente e in Oriente (Il Mulino, Bologna 2009). In quest’occasione gli abbiamo rivolto alcune domande.

Professor Barbagli, come colloca questo nuovo libro nella sua esperienza di ricerca?

Nonostante tutto ho trovato una continuità con le cose che ho fatto precedentemente. Per molto tempo mi sono dedicato allo studio dei comportamenti devianti: della criminalità, ma anche degli omosessuali, che ora non sono più visti come devianti, ma sono stati considerati tali in passato. Allo stesso modo, in momenti storici precedenti al nostro, il suicidio è stato trattato come un comportamento deviante. Un ulteriore elemento che accomuna la mia ricerca presente con quella precedente è il suo carattere storico. Mi è già successo in passato più volte, anche in libri sulla società contemporanea, di cercare sempre di capire qualcosa sull’evoluzione dei fenomeni che esaminavo. In questo libro, la prospettiva storica è probabilmente più esplicita che in altri miei studi. Ma l'ho fatto anche altre volte. Lo stesso si può dire per l’interesse verso l’interpretazione culturale, che ho adottato non solo in questo libro sul suicidio, ma anche, per esempio, in uno precedente sugli omosessuali [con Asher Colombo, Omosessuali moderni, Il Mulino, Bologna 2007, ndr].

Se consideriamo il contributo della sociologia classica sul suicidio, in particolare Durkheim, e ne constatiamo carenze alla luce delle ricerche successive, inclusa la sua, perché e con quale spirito dobbiamo ancora insegnare e leggere i classici?

Anche per quanto riguarda il suicidio, credo che Durkheim abbia ancora da insegnare moltissimo. Lo schema di fondo che lui usa [in Il suicidio, Rizzoli, Milano 2007, ndr], nel quale si sottolinea l’importanza dell’integrazione sociale, serve ancora a capire il suicidio e a capire molte altre cose. Se dovessi fare un corso sul suicidio o sulla devianza non potrei non parlare di Durkheim. Sotto molti altri aspetti, penso che Durkheim abbia sempre da insegnare molto. Ad esempio, dal punto di vista dell’impostazione degli studi culturali, Le forme elementari della vita religiosa [editore Meltemi, Roma 2005, ndr] viene ritenuto dai principali studiosi di studi culturali come un'opera fondativa. Non c'è dubbio che conservi una straordinaria importanza. D’altra parte, ci sono grandi problemi nell'impostazione di Durkheim. Ad esempio, la tipologia del suicidio da lui proposta, che è una tipologia eziologica, non permette davvero di capire il fenomeno. È più un ostacolo che un vantaggio. È una soluzione rigida che lui si è dato e che impedisce un ulteriore sviluppo della ricerca. Durkheim visto ora – per quel che riguarda lo studio sul suicidio – è pieno di difetti, al di là dei dati e degli avvenimenti degli ultimi vent'anni. Ma la sua importanza è comunque dimostrata dal fatto che, a più di cent’anni dalla pubblicazione del suo libro, continuiamo ancora a parlarne.

Con quali apporti conoscitivi può ancora distinguersi oggi il contributo della teoria sociologica nell’analisi del suicidio rispetto alle altre discipline?

Come ho fatto altre volte, nella mia indagine ho lavorato tenendo conto dei risultati della ricerca storica. Tuttavia, la differenza fondamentale della sociologia rispetto alla storia consiste ancora in ciò che per gli storici è un'illusione, ma che io continuo a ritenere importante e in grado di farci compiere passi avanti nella comprensione del fenomeno. Mi riferisco al fatto che gli interrogativi che si pongono i sociologi sono quelli che cercano e che conducono a generalizzazioni: non si accontentano solo di narrazioni, ma tentano di trovare regolarità. È questo l’elemento distintivo rispetto ad altre discipline come la storia, che peraltro negli ultimi vent'anni ha offerto un contributo rilevante all'analisi del suicidio. Questo discorso non vale per l'antropologia e la psicologia, che hanno obiettivi simili alla sociologia, per quanto prendano in considerazione altre variabili.

Quali sono, a suo giudizio, i più importanti punti di forza e di debolezza della ricerca sociologica contemporanea sul suicidio?

Ritengo che la ricerca sociologica contemporanea sia debole. Limitandoci agli ultimi vent'anni, con qualche eccezione come il libro di C. Baudelot e R. Establet [Suicide. L’envers de notre monde, Seuil, Parigi 2006, ndr] – che fa il punto sulle trasformazioni in corso e che, per fortuna, prende in considerazione le diminuzioni dei tassi di suicidio negli ultimi vent'anni nei paesi occidentali – ciò che mi colpisce negativamente è che i sociologi spesso riproducono e presentano dati per riconfermare la tesi di Durkheim, secondo la quale l’integrazione riduce il rischio di suicidio. I sociologi dimostrano di non essere molto innovativi. Non si sono sforzati di capire perché c'è questa diminuzione dei tassi di suicidio. In realtà, dopo Durkheim si trovano già negli anni ’30 e ’70 del XX secolo alcuni lavori che, in particolare in Francia, hanno permesso di fare passi avanti. Ma, a parte questo, direi che la ricerca sociologica dell’ultimo ventennio non sta offrendo molto alla comprensione del suicidio. In confronto, la ricerca storica e la ricerca psicologica sono molto più vivaci. Difatti, psicologi e psichiatri continuano a dare un contributo rilevante sul suicidio, sebbene con un’impostazione diversa. Come dicevo, il punto di forza della teoria sociologica dipende dal fatto che, quando non si limita a ripetere e a trovare conferme sull'importanza dell’integrazione, si pone interrogativi che mirano a formulare generalizzazioni. Non nego che, anche tra gli storici, ci siano studiosi attenti alla letteratura sociologica. Tendenzialmente, però, gli storici si accontentano più di narrazioni e descrizioni.

“I fattori che maggiormente hanno influito sulla frequenza dei diversi tipi di suicidio sono culturali”; questa è una delle tesi più importanti sostenute nel suo libro. A tal proposito, qual è, a suo giudizio, la differenza più significativa tra Occidente e Oriente? È prevedibile che la globalizzazione comporti una convergenza tra i diversi modelli culturali con effetti anche sulla percezione del suicidio?

Per certi versi è in corso da tempo, in particolare negli ultimi decenni del XX secolo, una convergenza tra diversi modelli culturali, con l’importante eccezione dei suicidi dei quali ti sei occupato anche tu [le missioni suicide e il terrorismo suicida, ndr]. Ma, per quanto riguarda tutto il resto, cioè per quanto riguarda alcune forme di suicidio tipiche dell’Asia – come in Cina, Giappone e india – o non esistono più oppure, se esistono ancora, stanno comunque perdendo le loro caratteristiche originarie. Da questo punto di vista, si assiste sempre più ad un avvicinamento tra culture diverse. Questo si vede, ad esempio, nella relazione con alcune variabili. Si pensi al genere: da un lato, in Occidente c’è un lento processo di diminuzione delle differenze tra uomini e donne; dall’altro, lo stesso accade in Oriente, come in Cina e India, come si evince dai dati di cui disponiamo, per quanto frammentari. Tra l’altro, colpisce il fatto che sia cresciuta la quota di donne anche nelle missioni suicide. Complessivamente penso che, da decenni, sia in corso una perdita di rilievo delle caratteristiche specifiche dei suicidi presenti nel mondo orientale. Anche se qualcosa resta. Ad esempio, in Giappone alcuni studi mostrano che la medicalizzazione del suicidio incontra ancora resistenze: la visione di certi suicidi come atti eroici rende ancora oggi difficile convincere a curarsi un paziente che presenta disturbi psichici.

Recentemente Jon Elster, titolare della cattedra di Rationalité et Sciences sociales presso il Collège de France, ha scritto un libro intitolato “Le désintéressement” (2009), dove si dedica un capitolo alle missioni suicide e una critica al modello della scelta razionale. Come giudica i tentativi di applicare questo modello all’analisi dell’attentatore suicida?

L'impostazione condivisa da molti studiosi ritiene che sia impossibile ridurre tutto in termini di costi e benefici e, quindi, inadeguata ogni spiegazione basata solamente sulla teoria della scelta razionale. D’altro canto, questo tipo di approccio può essere utile per spiegare il comportamento delle organizzazioni armate. Siamo dinanzi a un tipico caso in cui un’unica teoria non riesce a spiegare un fenomeno che, nella realtà, proprio per la sua complessità, richiede la combinazione di impostazioni diverse tra loro.

Il suo libro si distingue senz’altro per la ricchezza dei fattori e dei casi storici ed empirici presi in considerazione nell’analisi del suicidio. Quali sono, a suo giudizio, i fattori non ancora considerati con sufficiente attenzione? E quali sono i casi storici ed empirici, finora non studiati adeguatamente, che meriterebbero di essere maggiormente indagati?

I fattori non ancora studiati con attenzione sono tanti. Io, per esempio, non ho parlato se non in poche pagine del mio libro, dell'importanza dei fattori psichiatrici, con i quali i sociologi – e su questo Durkheim davvero sbagliava – dovrebbero fare maggiormente i conti. Su questo, per fortuna, nell’ambito disciplinare della psichiatria ci sono numerose ricerche che ci stanno permettendo di fare importanti passi avanti. Inoltre, restano dei settori assolutamente scoperti, che si permetterebbero di capire molto di più sia dal punto di vista storico che sociologico. Ci sono ancora paesi sui quali non sappiamo nulla, come quelli africani. Anche gli antropologi, tranne alcune eccezioni, non hanno mai affrontato di petto il suicidio nelle società preindustriali. Anche sulla storia di un paese che avrebbe moltissimo da offrirci, come il Giappone, non si sa praticamente niente. Mentre, per esempio, sull'India e sulla Cina si sono accumulati molti lavori, sul Giappone non c'è ancora stata una ricerca storica, dalla quale invece potremmo imparare molte cose. Analogo discorso vale per l’Italia. Anche sul nostro paese ci sono enormi vuoti dal punto di vista della ricerca storica in età moderna. Dal Cinquecento in poi si sa poco. In termini di indagini possibili, c'è ancora un campo sconfinato. Anche sul passato degli Stati Uniti, ed in particolare sul periodo coloniale, non ci sono studi sistematici. Da questi studi, così come da ulteriori indagini sulla Cina, potremmo ricavare nuovo materiale empirico, che potrebbe spingerci a cambiare l'impostazione delle nostre teorie.