Globalizzazione,
conflitti, movimenti sociali
A Trento il sociologo americano
Charles Tilly
Intervista di Mario Diani a Charles Tilly
Il grande storico e sociologo americano Charles
Tilly è stato recentemente a Trento, ospite della Scuola di Studi
Internazionali e del dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale.
La sua lezione su Globalization, inequality, and transnational
contention,
ha inaugurato la prima graduate conference organizzata presso il nostro
ateneo sul tema “Globalizzazione, conflitti, movimenti sociali”.
In quell’occasione gli abbiamo rivolto alcune domande.
Una questione ricorrente nell’attuale
dibattito sulla globalizzazione riguarda la novità del fenomeno,
e la stessa opportunità di utilizzare un concetto specifico per
analizzare dinamiche che molti osservatori (si pensi a Immanuel Wallerstein
con la sua teoria dell’economia-mondo) datano molto indietro nel
tempo. Qual è la Sua posizione al riguardo?
Per globalizzazione si possono intendere tre dinamiche principali:
la migrazione di popolazioni attraverso il globo; la diffusione di idee,
tecniche, e forme di organizzazione sociale da certe popolazioni e luoghi
ad altri; il crescente coordinamento e interdipendenza di varie attività
su scala mondiale. Ogni volta che il peso di questi processi eccede significativamente quello di tendenze di segno opposto,
si può parlare di fenomeni di globalizzazione. In questo senso,
ondate di globalizzazione si sono succedute ripetutamente nel corso
della storia, e non ha senso parlare di novità assolute. Tuttavia,
se andiamo a esaminare le caratteristiche specifiche dell’attuale
fase di globalizzazione, le differenze rispetto a quelle che l’hanno
preceduta sono molto significative.
Cosa differenzia in particolare la globalizzazione che stiamo
attraversando oggi dalla grande fase di espansione del capitalismo industriale
che si verificò tra il 1850 e il 1914?
In primo luogo, nonostante il colonialismo imperiale e l’emergere
del Giappone, la fase di sviluppo del XIX secolo-inizio XX era comunque
largamente centrata sull’Atlantico, e le nazioni europee e nord-americane
ne furono pressochè gli unici protagonisti; questa volta molti
paesi dell’area asiatica hanno assunto un ruolo di primo piano.
Inoltre, le attività economiche nella fase 1850-1914 erano fortemente
concentrate in specifiche aree territoriali, associate com’erano
a materie prime quali il carbone e il ferro. La globalizzazione post-1945
si incentra invece su attività ad alta tecnologia e alto contenuto
di informazione, come l’elettronica o la farmaceutica. È
pur vero che anche in questo caso se ne può individuare il centro
in specifiche località, come Silicon Valley o Paris-Sud, ma la
capacità di decentrare funzioni e compiti verso altre parti del
globo è altissima (si pensi a come cavi a fibre ottiche e connessioni
via satellite permettano il trattamento dei dati nell’India meridionale
da manodopera qualificata e a basso costo per conto di imprese operanti
a Londra o New York). Infine, la globalizzazione del XIX secolo consolidò
gli stati nazionali, anche attraverso le lotte dei movimenti operai
per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Ne risultò
un graduale rafforzamento delle tendenze protezioniste. Al contrario,
la variante recente di globalizzazione ha minato il potere di molti
stati, permettendo al capitale di spostarsi liberamente da un paese
all’altro seguendo le opportunità di profitto.
Nella sua conferenza Lei ha insistito molto sulla diffusione
su scala globale di varie attività criminose, dal traffico di
prostitute a quello di armi, dal reclutamento forzoso di bambini soldato
alla ripresa di varie forme di schiavitù, dall’immigrazione
illegale al traffico di droga...
Il commercio di droga è un’ottima illustrazione
sia delle dinamiche che portano alla costruzione di mercati globali, sia dell’impatto devastante che attività
criminali di questa portata possono esercitare sull’equilibrio
degli stati e sulla possibilità stessa di consolidamento e/o
mantenimento della democrazia, in specie al di fuori del mondo occidentale.
Si tratta ovviamente ancora una volta di un fenomeno tutt’altro
che nuovo: gli occidentali promossero il commercio dell’oppio
in Cina già nel XIX secolo. Ma la portata dei traffici di droga
e dei relativi profitti nel secolo appena conclusosi non è comparabile
con quella di esperienze precedenti: negli anni ’90 gli esperti
delle Nazioni Unite ne hanno stimato il peso a circa l’8 per cento
del commercio mondiale. I profitti della droga finanziano non solo imprese
criminali di ogni sorta, ma gruppi radicali di vari orientamenti ideologici,
con un conseguente incremento dei conflitti civili interni a vari paesi;
lo sviluppo di un intero settore del sistema bancario dedito specificamente
al riciclaggio di denaro sporco in aree protette come quelle dei Caraibi; il coinvolgimento più o meno diretto
dei funzionari governativi in varie forme di corruttela. Le conseguenze
di questa situazione per la qualità della convivenza civile e
democratica possono essere drammatiche.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si è
registrato un tendenziale inasprimento dei conflitti “irregolari”
interni a specifici paesi (guerre civili, movimenti di guerriglia, genocidi
e stermini di massa, conflitti tra bande mercenarie). In molti casi,
questi fenomeni sono stati imputati a rinnovate domande di identità
e alla reazione dei gruppi minacciati nella loro cultura dalle forze
omologatrici della modernizzazione occidentale. Lei condivide queste
interpretazioni?
Solo parzialmente. Tendiamo spesso a dimenticare che la globalizzazione
– e fenomeni analoghi come la decolonizzazione – ha creato
numerose opportunità per i gruppi di potere locali nei cosiddetti
paesi in via di sviluppo. Nonostante i costi imposti su quelle popolazioni
dalla trasformazione economica e dalle politiche di aggiustamento strutturale,
le élites locali hanno normalmente tratto notevoli vantaggi dalla
crescente integrazione dei loro paesi in un sistema globale (ad esempio attraverso la concessione
di aiuti allo sviluppo, prestiti, assistenza militare, contratti con
società multinazionali, tangenti, ecc.). In tale contesto, l’appello
alle specificità etniche, religiose o territoriali ha spesso
rappresentato nient’altro che la giustificazione ideologica per
le aspirazioni di potere di diversi potentati e delle coalizioni che
li sostenevano. Conflitti che a distanza possono apparire come manifestazioni di odio interetnico, ad un’osservazione
più accurata rivelano spesso profonde motivazioni politiche ed
economiche.
in alto a destra: il
sociologo Charles Tilly
Charles Tilly è Buttenweiser Professor of
Social Sciences alla Columbia University di New York. Si occupa di mutamento sociale
su vasta scala in una prospettiva storico-comparata. Storico di formazione,
il suo lavoro ha esercitato una profonda influenza anche sulla sociologia e sulla scienza politica, attraverso
contributi fondamentali alla comprensione dei processi di costruzione dello
stato moderno, della violenza collettiva, dei movimenti sociali, delle rivoluzioni, della disuguaglianza
sociale. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Dynamics of Contention (insieme
a Doug McAdam & Sidney Tarrow, Cambridge University Press, 2001),
The
Politics of Collective Violence (Cambridge University Press, 2003),
Contention and
Democracy in Europe, 1650-2000 (in stampa presso Cambridge University Press).
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