no53

  radici  

La polis greca tra storia e politica
Nuove prospettive di interpretazione
di Maurizio Giangiulio

Noi leggiamo, iscritte su pietra poco prima del 600 a.C., le più antiche deliberazioni pubbliche della città greca (la polis). All’espressione formale di decisioni cogenti per la collettività si arrivò dopo un lungo travaglio, di almeno tre secoli. 
Come oggi sappiamo, in Grecia lo sviluppo di un ordine comunitario e di una struttura istituzionale dovettero prescindere da tutti quei fattori che altrove hanno contribuito alla “origine dello stato”. A causa della grande crisi seguita al crollo della civiltà greca del II millennio a. C. nota come civiltà micenea, non si poteva far conto sull’impulso fornito da un potere monarchico o religioso, né le condizioni socio-economiche, ovvero la minaccia di potenze esterne favorivano la concentrazione del potere. Così, in un contesto caratterizzato da risorse limitate e poco concentrate, da una tecnologia semplicissima, dall’assenza di istanze detentrici di un potere soverchiante, ordine comunitario e struttura istituzionale si costituirono nel corso di un faticoso processo di organizzazione politica che ebbe luogo in seno alla collettività, organizzata, all’inizio del processo, in qualcosa di molto simile alle comunità di villaggio. Il processo rappresentò, dunque, non la strutturazione di una società preesistente da parte di un’istanza di potere, bensì il progressivo definirsi di una società politica come forma dell’organizzazione stessa di una società. Accadde insomma, che le crescenti esigenze della collettività di esprimere capacità organizzative e decisionali venissero a essere soddisfatte attraverso lo sviluppo di una funzionalità politica di tipo comunitario, partecipativo e diretto. Da quel momento in poi la polis fu il luogo di un’agire politico che prendeva posto “nel mezzo” della collettività, di cui erano partecipi direttamente i membri della collettività stessa. 
Comprendiamo meglio, ora, perché non si può parlare di uno stato che organizza la società, mentre si può sostenere che la polis coincide con quanti ne fanno parte. Ecco perché non esisteva una vera distinzione tra governanti e governati, tra “loro” e “noi”. In questo quadro il potere esecutivo dei titolari di una carica pubblica non era veramente tale, e in ogni caso era assai debole; essi rimanevano semplici cittadini incaricati di un ufficio dalla collettività. Né c’era un’organizzazione burocratica, o funzioni riservate a specialisti, in campo amministrativo o giudiziario. Mancavano strutture di polizia incaricate di garantire l’ordine pubblico e la stessa esecuzione delle sentenze doveva contare sulla collaborazione delle parti in causa. In generale, la chiave della funzionalità politica della polis non è tanto il potere delle istituzioni quanto l’integrazione della comunità, l’operatività della rete di associazioni civiche in cui essa è ripartita, la possibilità di una partecipazione diretta in un quadro di consensualità diffusa, di “amicizia politica”, come sosteneva Aristotele. Ed è per questo che la politica nella polis è più funzionale all’espressione del consenso che non all’organizzazione del dissenso e alla gestione del conflitto tra le parti. E la lotta civile, la frattura della polis, è un rischio immanente e un male assoluto per l’immaginario collettivo e per il pensiero politico.
Dev’essere sottolineato che abbiamo guadagnato questa immagine della polis solo in anni recenti. Fino a pochi decenni orsono l’immagine moderna della polis era profondamente condizionata dal dibattito, di matrice ottocentesca, sul rapporto tra “onnipotenza dello stato greco” e libertà dell’individuo e tutto si risolveva nell’accentuare la prima rispetto alla seconda, sulla scia di Benjamin Constant e Jacob Burckhardt, ovvero nel riconoscere la polis solo nel momento storico in cui con l’età classica e l’avvento della democrazia si ridusse il ruolo delle grandi individualità aristocratiche. Altri orizzonti fecondi per la comprensione della realtà storica della polis rimasero a lungo inesplorati, e questo vale soprattutto per la geniale indagine idealtipica di Max Weber sulla città antica. In anni più recenti, un settore dell’antichistica tedesca ha sfruttato la lezione di Carl Schmitt sulla “autonomia del politico” per identificare la polis come l’ambito del “puro politico”, in cui l’uguaglianza politica dei cittadini, quale ne fosse il numero, faceva premio su ogni altra diseguaglianza e orientava in ogni senso l’identità collettiva. Ma anche in questo caso il mito storiografico ottocentesco della polis come stato torna a far capolino e con esso una sottovalutazione del rapporto tra istituzioni e società nel peculiare contesto greco, con la sua storia di “poteri deboli” alle spalle. 
Oggi la prospettiva interpretativa della storia e della natura della polis come comunità politica, della quale si è fatto assai brevemente cenno qui, sta prendendo piede negli orientamenti complessivi e nella pratica di ricerca di un numero crescente di studiosi del mondo greco. Vi ha contribuito un dialogo incessante con le scienze sociali, che è forse la caratteristica più saliente del nuovo orientamento degli studi sulla civiltà greca arcaica e classica negli ultimi decenni. Hanno giocato un ruolo decisivo l’antropologia sociale e la storia del diritto, la riflessione sulla teoria dello stato e la sua crisi, nonché alcune suggestioni riconducibili alla lezione di Foucault. D’altra parte ha avuto un peso notevole anche una nuova ricostruzione dei secoli cruciali succedutisi, tra II e I millennio al crollo del mondo miceneo, sulla scorta di imponenti nuove acquisizioni archeologiche da un lato e di una assai più accurata consapevolezza del contesto storico mediterraneo e medio-orientale dall’altro. Nuovi dati empirici e modelli euristici raffinati, in un fecondo concorso reciproco, hanno contribuito a sottrarre la polis da un’esemplarità fuori del tempo, ma anche da schemi interpretativi condizionati dalla riflessione ottocentesca. Una tutta moderna consapevolezza teorica ha permesso di mettere a fuoco i limiti di rappresentazioni storiografiche invalse e di riconoscere la polis greca in tutta la sua peculiarità. La modernità è quella degli strumenti conoscitivi e non quella del fenomeno indagato. La polis è irriducibile alle esperienze moderne; le differenze sono superiori a quanto ogni identità lessicale potrebbe far credere. 
Un esempio indicativo di tutto questo viene da un dibattito recentissimo.
In anni molto vicini a noi non è mancato chi ha conclamato il carattere non statale della polis, la sua natura di comunità politica senza stato. In quanto sprovvista di un potere centrale e di un apparato coercitivo. Si tratta di valutazioni che presuppongono la validità assoluta della definizione weberiana di “stato”: l’istituzione che può dirsi tale quando e nella misura in cui può rivendicare con successo a sé il monopolio dell’uso legittimo della costrizione nell’ambito di un determinato territorio. Eppure Weber stesso riteneva che questo concetto di stato fosse appropriato solo per lo stato moderno, razionale e burocratico. Ma perché utilizzare il metro della statualità moderna per valutare la realtà antica? Che senso ha adottare criteri che costringono a identificare nella polis solo l’assenza dei tratti distintivi dello stato moderno? In realtà è storicamente molto più pertinente cercare di comprendere la peculiarità dell’organizzazione politico-istituzionale della polis che non rimarcarne le differenze rispetto alle organizzazioni statali moderne e contemporanee. Tanto più che uno degli aspetti cruciali di questa peculiarità è la funzionalità comunitaria, su base consensuale e partecipativa, della polis. Deve essere sottolineato con enfasi, in realtà, che la centralizzazione del potere e il monopolio dell’uso della coercizione non sono obiettivi che la polis non raggiunge, bensì obiettivi che essa non si pone. Essenziale è riconoscere che davvero tipica della polis è proprio la scarsa differenziazione delle funzioni statali rispetto alla società. Si tratta di riconoscere le forme specifiche assunte da un particolare rapporto tra ambito politico e ambito sociale che pare in realtà costitutivo della polis
Dobbiamo rinunciare qui a una discussione di dettaglio. Possiamo limitarci a dire che nella polis le pratiche della sfera politica coinvolgevano la società e viceversa. I due piani restavano distinti, ma non erano indipendenti. Se la polis non è l’ambito del “puro politico” - in verità neppure a Sparta -, non è nemmeno la semplice forma politica dei rapporti sociali. Piuttosto si configura, soprattutto nel caso ateniese, come la risultante del rapporto tra una comunità di cittadini e un contesto sociale più ampio. Dovremmo parlare di una coesistenza, fitta di stretti nessi reciproci, di “città-istituzione” e “città-società”, e non ridurre la polis a mera dimensione politico-istituzionale. Siamo di fronte all’integrazione, fragile e di durata limitata nel tempo, di una realtà civica di uguali in politicis e di una società marcata dalla disuguaglianza socio-economica. La soluzione greca non ha retto alla prova del tempo. Il problema, quello sì, è attualissimo.

In alto a destra: Atene, ricostruzione. Da J. Sarkady, Reise und das Alte Athens, Budapest 1974;
in basso: il Partenone sull’Acropoli di Atene.