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  l’intervista  

Caduta delle ideologie, cambiamento dei valori
A Trento due seminari del sociologo Raymond Boudon
intervista di Enzo Rutigliano a Raymond Boudon

Raymond Boudon, uno dei sociologi più noti e autorevoli nell’ambito internazionale della disciplina, insegna alla Sorbona e alla Facoltà di Sociologia di Trento.
Recentemente ha tenuto da noi due seminari su due argomenti centrali del dibattito sociologico di oggi: il problema dei valori e “lo stato dell’arte” della sociologia. Anzi, sulla esistenza stessa della disciplina, problema che sorge data la disseminazione dei paradigmi interpretativi e della loro irrimediabile parzialità circa la conoscenza dei fenomeni sociali. E della altrettanto impossibilità di cogliere - “da una sola mente, da un solo cuore” (Th. W. Adorno) - la complessità della realtà sociale contemporanea sussumendola in una teoria.
Gli abbiamo posto, su questi argomenti, alcune domande.

In che relazione sono la caduta delle ideologie con la caduta dei valori? Vi è una relazione di causa ed effetto tra i due eventi?
Il declino dei valori è stato enfatizzato in maniera esagerata dalla sociologia popolare, ma anche da quella accademica. Se guardiamo ai dati ricavati dalle indagini l’impressione è alquanto diversa. Perciò nel mio libricino sull’argomento (Déclin de la morale? Déclin des valeurs?, Paris, Puf, 2002), ho analizzato i dati desunti dalle indagini mondiali sui valori condotte da Inglehart. I dati che ho esaminato trattano di sette Paesi occidentali (Canada, Francia, Germania, Italia, Svezia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America). L’impressione generale che se ne trae quando si paragona il gruppo degli adolescenti (16-24 anni) con quello più adulto (dai 54 anni in su) è quello di una lenta evoluzione: i giovani credono nell’indispensabilità dell’autorità ma vogliono, in modo più sentito rispetto al gruppo più adulto, che il comando sia giustificato;  essi credono nella distinzione tra bene e male, ma riconoscono un po’ di più che non è sempre facile applicare queste categorie a situazioni date; credono nei doveri dei genitori nei confronti dei figli e dei figli nei confronti dei genitori; nella maggior parte dei Paesi, una grande maggioranza crede nel matrimonio e nella famiglia quasi nella stessa misura degli adulti; credono nella democrazia, ma sono più desiderosi di partecipare attivamente piuttosto che lasciare il sistema politico nelle mani dei soli rappresentanti politici. In generale, dai dati si desume l’impressione che i giovani hanno gli stessi valori degli adulti; ma sono più sicuri di sé, più critici, più tolleranti, più sensibili alla complessità dei fenomeni sociali, economici e politici e per questa ragione più riluttanti a sostenere estremismi politici, sia di destra che di sinistra. I giovani appaiono nel complesso più individualisti ma non meno attaccati ai valori. I dati suggeriscono che questi numerosi cambiamenti sarebbero dovuti in gran parte all’istruzione: coloro tra i giovani che hanno conseguito una maggiore istruzione mostrano questi cambiamenti in modo più marcato rispetto ai meno istruiti. Quindi, non si osserva una vero declino dei valori, ma piuttosto una crescente affermazione dei valori individualistici e uno sviluppo della razionalizzazione dei valori. Pertanto, le regole morali che appaiono come tabù sono rifiutate in nome del valore morale fondamentale che è il rispetto reciproco. Questo tipo di evoluzione era stato predetto da Durkheim  e da Weber, ognuno a modo suo. L’impressione del declino dei valori è dovuto in buona parte a confusione: il fatto che il numero di tossicodipendenti aumenti così come il numero dei delinquenti è una cosa, ma non significa che la tossicodipendenza o la delinquenza sono diventati valori positivi. Tutte le osservazioni denotano che i tossicodipendenti non sono accettati facilmente e che loro stessi non si accettano. Quindi, direi in risposta alla Sua domanda che non c’è un vero declino dei valori né dei principi morali, ma che ci sono dei cambiamenti nella frequenza di molti tipi di comportamento dovuti soprattutto a una crescente tolleranza generale. Per quanto riguarda le ideologie, c’è un evidente declino delle “grandi ideologie”, di quelle ideologie cioè che propongono una visione generale del mondo. Questo è legato al fatto che il mondo non è più diviso tra grandi visioni competitive del mondo incorporate nei sistemi politici, ma anche alla generale crescita del livello di istruzione (nei Paesi occidentali) e alla complessità dei fenomeni sociali, economici e politici. Deve inoltre essere riconosciuto che se le grandi ideologie appartengono al passato, quelle che io chiamerei “piccole” ideologie sono e saranno sempre presenti. Poiché le società sono ingiuste nei confronti di molte persone, ci sarà sempre una richiesta e un’offerta di facili ricette che si suppone migliorino le società, l’efficacia delle quali sarà lontana dall’essere giustificata, almeno per la maggior parte di esse.

La crisi della sociologia – intesa come lettura e insieme strutturazione della società (Orientierungslehre) – come era alle sue origini – è una crisi di orientamento (Orientierungskrise)?
La disseminazione dei paradigmi sociologici, alternativi l’uno all’altro, e l’affermarsi delle microsociologie al posto delle grandi teorie che si occupano del mutamento sociale, della stratificazione sociale, le grandi teorie dell’azione, etc., hanno contribuito alla crisi attuale della sociologia in quanto incapace di dare una spiegazione che rassicuri del funzionamento della società?
L’attuale crisi della sociologia è essenzialmente dovuta – secondo la diagnosi che propongo in Y a-t-il encore une sociologie, Paris, Odile Jacob, 2003 – al fatto che molti sociologi non accettano, diciamo, la teoria di Tocqueville, Weber o Durkheim secondo la quale la sociologia dovrebbe essere essenzialmente dedicata, come qualsiasi disciplina scientifica, a spiegare, all’interno del suo ambito, i fenomeni che sono difficili da descrivere. Pertanto Tocqueville ha dimostrato che l’alto livello di centralizzazione in Francia ha spiegato molte delle differenze tra Francia e Gran Bretagna. Egli spiegò perché gli americani sono più religiosi degli europei. Durkheim spiegò perché la gente crede nella magia e perché i tassi di suicidio cambiano in funzione di un numero di variabili. Weber spiegò che lo sviluppo economico è stato stimolato da certe visioni religiose del mondo. Oggi la sociologia sembra orientata in molti casi da una richiesta da parte dello Stato, dei partiti politici, dei movimenti sociali e di varie istituzioni. Prendiamo due esempi: mentre Durkheim o Weber si preoccupavano, quando trattavano di istanze religiose, di spiegare le ragioni per cui la gente sostiene un tipo o un altro di credenza religiosa, i sociologi della religione sono più preoccupati ad esplorare il livello, diciamo così, con cui il Protestantesimo minaccia il Cattolicesimo in America Latina; diversamente, gli studi sull’opinione pubblica nelle due o tre decadi dopo la seconda guerra mondiale si occupavano della teoria dell’opinione pubblica, e analizzavano le ragioni e i meccanismi che fanno credere alla gente ciò in cui crede. Oggi, le indagini d’opinione proliferano ma sono usate più per predire i risultati delle elezioni e per controllare la popolarità dei leader politici piuttosto che per esplorare la questione essenziale dell’opinione pubblica. In generale, le opinioni collettive e le credenze sono al giorno d’oggi osservate e misurate più che spiegate. Un’altra causa della crisi della sociologia è la crescita nella richiesta di sociologia da parte dei media: questa richiesta spinge molti sociologi a scrivere brevi saggi facili da leggere, che in molti casi aumentano di poco la nostra comprensione della società.

La proliferazione delle sociologie specialistiche (sociologia della famiglia, di genere, economica, politica, dell’ambiente etc.) ha contribuito allo svuotamento della sociologia in quanto tale, capace di dare una spiegazione unitaria dei fenomeni sociali?
Le tante sociologie specialistiche non hanno, paradossalmente, dissolto invece che espandere l’influenza del punto di vista sociologico contribuendo alla crisi della disciplina?
La proliferazione di sociologie specialistiche deve essere collegata alla crescente richiesta delle istituzioni, movimenti sociali ecc. a cui ho appena fatto riferimento. È vero che da questo risulta una frammentazione della sociologia e che la sociologia generale tende ad essere svuotata di significato. Oltre alla proliferazione di ricerche specialistiche applicate, un altro fattore della frammentazione dovrebbe essere menzionato. Negli anni Cinquanta e Sessanta, le strutture generali (funzionalismo, marxismo, strutturalismo ecc.) fornirono dei denominatori comuni; negli anni seguenti furono offerti e presentati dei paradigmi come aventi una vocazione generale (etnometodologia, fenomenologia, interazionismo simbolico fra gli altri). Ma erano vaghi e la loro influenza è rimasta limitata nello spazio e nel tempo. Diedero presto l’impressione di spiegare l’ovvio. Poi è arrivata la moda delle reti. Ma le reti sono una dimensione della vita sociale, non un paradigma sociologico. Poi fu proposta la teoria della scelta razionale. È un paradigma, e per giunta preciso e utile. Prima di essere definito come tale, fu usato da Tocqueville e da molti altri grandi sociologi. Ma include una teoria della razionalità decisamente troppo stretta e rigida. La mia opinione sull’argomento è che una versione dell’individualismo metodologico, che include una teoria della razionalità molto più aperta e sofisticata della teoria utilitaristica-strumentale della razionalità attualmente appoggiata dai “teorici della scelta razionale”, è la chiave che giustifica la forza esplicativa delle teorie più solide e illuminanti prodotte dalla sociologia classica e moderna. Ho cercato di dire qualcosa in più su questo argomento in un mio recente libricino (Raisons, bonnes raisons, Paris, Puf, 2003) e nel capitolo introduttivo dell’Annual Review of Sociology (che verrà pubblicato nel luglio del 2003).

 


 

Raymond Boudon

Raymond Boudon, nato nel 1934, insegna alla Sorbona di Parigi. È membro dell’Académie des sciences morales et politiques e di numerose società scientifiche. È presidente della European Academy of Sociology. È stato presidente del comitato di redazione de l’Année Sociologique (Parigi). Ha insegnato in ben 16 università del mondo, tra cui la Columbia, Harvard, Oxford, Chicago, Hong Kong e l’Università Bocconi di Milano. Tra le sue pubblicazioni citiamo: L’inégalité des chances, Effets pervers et ordre social, La place du désordre, L’art de se persuader, Le juste et le vrai, Le sens des valeurs, Etudes sur les sociologues classiques [tutti disponibili anche nella traduzione italiana], Déclin de la morale? Déclin des valeurs? I suoi testi più recenti sono Y a-t-il encore une sociologie?, Paris, Odile Jacob, 2003 e Raison, bonnes raisons, Paris, Puf, 2003.

 

Intervista in lingua originale inglese