Processo penale e terzietà del giudice
Un libro e un convegno alla Facoltà di Giurisprudenza
di Maurizio Manzin È probabile che nessuno di noi,
assistendo ad una partita di calcio, sarebbe rassicurato dal sapere in anticipo
che l’arbitro, prima di svolgere le sue attuali funzioni, era stato un giocatore
della squadra avversaria. Eppure, nell’ordinamento giudiziario italiano, questo succede regolarmente:
accusatore e giudice possono scambiare i propri ruoli. Il magistrato che ieri coordinava le
indagini degli organi di polizia giudiziaria, oggi potrebbe essere colui che ne sorveglia la piena
legittimità. E domani addirittura il giudice che, in dibattimento, valuterà
la fondatezza delle tesi sostenute da qualche suo ex-collega della procura.
Questa situazione potenzialmente lesiva del principio di “terzietà” (quello per il quale il giudice
espleta la sua funzione decisoria in quanto “terzo” che sta al di sopra delle parti), un principio
universalmente considerato come segno essenziale della civiltà giuridica di una nazione, si è
prodotta a causa del perdurare nel nostro ordinamento di un modello processuale che in dottrina
è definito “asimmetrico” o “inquisitorio”. Questo modello ha origini e motivazioni
lontane e non banali: esso nasce sostanzialmente dalla giuspubblicistica dell’età moderna, dalla teoria e
dalla prassi politiche che portarono all’affermazione dello stato assolutista nel XVI secolo. Il processo
inquisitorio, fissatosi nella carne stessa dei soggetti processuali per la sua plurisecolare tradizione,
è caratterizzato da una sorta di sproporzione fra il peso esercitato dall’unità della giurisdizione
(sia il giudice sia l’accusatore sono magistrati pubblici nominati dallo stato) e quello,
invero assai più debole, dell’avvocato difensore: un soggetto non più statuale ma privato, che nel
“palcoscenico” delle aule di giustizia precedenti alla riforma del 1989 era
addirittura materialmente estromesso dallo spazio fisico riservato ai magistrati
dell’accusa e del giudizio.
Al modello inquisitorio si oppone il modello cosiddetto “isonomico” o “accusatorio”, legato alla
tradizione del pensiero liberale e agli ordinamenti di Common Law. A questo secondo modello pretendeva
ispirarsi il nuovo codice di procedura penale approntato nel 1989: quel codice Vassalli
che - si diceva - avrebbe introdotto nel nostro ordinamento il processo “alla Perry
Mason”, ma il cui spirito è stato invece sonoramente tradito dalle successive modifiche e novellazioni, sopravvenute
numerosissime nel corso degli anni (segno di una persistente resistenza del corpo giudiziario,
e dei suoi principali referenti politici, al cambiamento di mentalità).
Il processo accusatorio è caratterizzato da un diverso regime probatorio, in cui le prove non sono sottoposte
al giudice, per così dire, già confezionate dal PM, ma devono formarsi “in dibattimento”, cioè
nella libera valutazione da parte del giudice degli elementi forniti dall’accusa e dalla difesa.
Il cambiamento delle dinamiche processuali non è, ovviamente, un problema che riguarda soltanto
gli studiosi della procedura penale: esso investe direttamente il livello politico-istituzionale,
poiché ad un giudice “terzo” che valuta gli elementi di prova dovrebbero
far da contraltare due soggetti dotati di pari posizione fra loro e ugualmente
separati dal terzo giudicante. Ecco perché alcuni invocano oggi, a salvaguardia del nuovo modello
processuale, una riforma dell’ordinamento giudiziario per separare la magistratura requirente
da quella giudicante: un’invocazione autorevolmente rafforzata dalla modifica che il legislatore
ha apportato all’art. 111 della Costituzione sul “giusto processo”.
Dal punto di vista proprio della filosofia del diritto, alla novità costituzionale per la quale al cittadino,
ora, è più chiaramente riconosciuto il diritto di essere giudicato da una posizione neutrale
ed equidistante dall’accusa e dalla difesa, corrisponde la necessità di investigare le conseguenze
della mutata logica giudiziale, sia sul piano teorico-generale sia, come anche si dice,
de jure
condendo (poiché il nuovo art. 111 Cost. comporterà una serie di modificazioni
legislative e di
costume che sono appena all’inizio). La “triangolarizzazione” del processo tende infatti a
trasformare i ruoli del PM e dell’avvocato nel senso proprio di due parti in
contraddittorio che, attraverso discorsi simili ma di contenuto opposto,
candidano le rispettive tesi. Mentre al “terzo” giudicante spetta di pronunciare un discorso affatto
diverso, che non si riduce all’una o all’altra parte ma “vale” sopra di loro, poiché emana una sentenza
vincolante per entrambe. Il problema per il filosofo del diritto è: “vale” solo per una forza
autoritativa stabilita e difesa dallo stato, o anche per un’intrinseca “verità” in essa contenuta?
A questo tema il Dipartimento di Scienze Giuridiche dedicò nel 2000 un importante
convegno concretizzatosi in seguito nella pubblicazione n. 36 della sua collana “Quaderni”,
a cura di chi scrive, intitolata Funzione della pena e terzietà del giudice nel confronto
fra teoria e prassi (Trento, 2002). Il volume è stato presentato in questi giorni
in occasione di un’analoga iniziativa realizzata nella Facoltà di Giurisprudenza di concerto
con l’Unione Italiana delle Camere Penali (l’associazione che riunisce gli avvocati
penalisti italiani) e dedicata allo stesso tema. Con una formula leggermente diversa da
quella del 2000, che vedeva riuniti paritariamente ordini professionali degli avvocati,
magistrati e docenti della materia, lo scorso 22 febbraio hanno animatamente discusso politici di diversa
provenienza, rappresentanti al massimo livello dell’UICP, docenti di procedura penale, un magistrato
e un filosofo del diritto. Dalle relazioni e dal dibattito che ne è seguito sono
emerse le differenti posizioni di coloro i quali ritengono la “terzietà” soddisfatta dalle leggi in vigore e coloro,
invece, che ritengono urgente e necessaria una riforma dell’ordine giudiziario tesa a separare nettamente
la carriera (e non solo la funzione) del giudice da quella del PM. Occorre tuttavia osservare
che il nodo del contendere non è di principio: tutti i partecipanti al consesso trentino, con
un’unica parziale eccezione, hanno sostanzialmente concordato sull’opportunità della separazione
in sé (mostrando in maniera sorprendente una trasversalità che non appare dalle prese di
posizione che normalmente ci provengono dai mass media). Le divergenze sono altresì evidenti
sui modi praticabili della separazione, poiché l’eventualità di un PM sottratto
al ceto della magistratura e sottoposto ad altri poteri (legislativo, esecutivo)
alimenta i timori e le resistenze nei confronti di una riforma ispirata più decisamente al modello
accusatorio anglosassone.
L’auspicio è che dal coinvolgimento degli studiosi con i ranghi più autorevoli delle professioni legali
e con i rappresentanti politici possa crescere un clima sereno e costruttivo - simile a quello
realizzato dal convegno di Trento - indispensabile all’apprestamento di quelle misure innovative
del “sistema giustizia” che, con diversi accenti, sono invocate da tutte le parti in causa. Nessuna
riforma che prescinda da una larga convergenza dei soggetti in dialogo e da solide motivazioni di
carattere scientifico potrà, infatti, rivelarsi efficace alla prova dei fatti.
È in gioco la credibilità delle istituzioni pubbliche preposte alle libertà individuali del cittadino, sulle
quali saremo giudicati come nazione dal contesto europeo, a maggior ragione dopo la costruzione
della carta fondamentale dell’Unione.
[I lavori del convegno sono disponibili integralmente
su Internet, alla pagina www.jus.unitn.it/dsg/convegni/2003/pm/home.html
del Dipartimento di Scienze giuridiche]
Maurizio Manzin, è docente di filosofia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento |
Sopra a sinistra: un’udienza della Corte d’Assise di Trento
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