no21

  speciale 3+2  
Giurisprudenza
La riforma degli studi giuridici
di Roberto Toniatti

La riforma degli studi giuridici - per quanto è dato anticipare allo stato attuale del progetto ancora connotato da incertezze non marginali - pone problemi sia di configurazione generale della formazione del giurista, sia di applicazione concreta del nuovo ordinamento nell'ambito dei margini di autonomia dei singoli atenei. Dal primo punto di vista, occorre dire con estrema chiarezza che una delle più evidenti conseguenze della riforma è che si viene a distinguere il percorso formativo di chi intende accedere alle professioni forensi (avvocato, magistrato e notaio) e di chi si pone invece altri obiettivi professionali che presuppongono comunque l'apprendimento del metodo tipico della scienza giuridica. Proprio su questa differenziazione, che è (a mio giudizio, opportunamente) del tutto innovativa per le facoltà giuridiche, conviene concentrare l'attenzione in questo (primo) intervento, con l'avvertenza che solo un'accorta progettazione formativa e culturale sia dei contenuti scientifici sia dell'innovazione organizzativa e metodologica della didattica potrà superare alcune incongruenze della riforma. Nel primo percorso, dunque, il nuovo ordinamento prevede il corso di laurea triennale (riconducibile alla classe delle scienze giuridiche), seguito dal corso biennale di laurea specialistica in giurisprudenza, il quale a sua volta condiziona l'ammissione alle nuove scuole biennali di specializzazione per le professioni legali. Queste scuole, la cui durata potrebbe in futuro essere ridotta ad un solo anno, saranno un passaggio obbligato per l'accesso in magistratura, mentre saranno facoltative per chi intenda affrontare l'esame da avvocato (fonti autorevoli chiedono peraltro che il diploma di specializzazione venga riconosciuto come titolo idoneo per essere ammessi direttamente alla prova orale). Si viene pertanto a determinare, in concreto, un allungamento della durata degli studi giuridici (dagli attuali quattro anni ai futuri cinque), prima della ulteriore e specifica formazione professionale, ora prevista come biennale (in quanto destinata ai titolari della laurea quadriennale) e in futuro, forse, annuale. Si potrebbe ritenere, da un lato, che questo allungamento confermi quanto fisiologica sia l'attuale durata degli studi giuridici, molto spesso più lunga dei quattro anni previsti dall'ordinamento (anche se nella nostra Facoltà non sono mancati negli scorsi anni studenti e studentesse che hanno regolarmente acquisito la laurea, con il massimo dei voti e la lode, nei quattro anni) e contribuisca a sdrammatizzare, in parte, il problema dei fuori corso. Ma occorre anche dire che queste prospettive di tempo per la conclusione degli studi universitari esigono una forte motivazione degli studenti al momento dell'iscrizione (nonché, particolare non trascurabile, una famiglia con una robusta capacità economica alle spalle).

Sopra: il preside Roberto Toniatti.
Sotto: la Facoltà di Giurisprudenza vista da via Rosmini.
Questa configurazione potrebbe servire ad eliminare il problema degli abbandoni anticipati degli studi giuridici (il cui inizio diventa sempre più un investimento a tempo medio-lungo), ma al tempo stesso le prospettive qui delineate potrebbero determinare un sensibile calo delle immatricolazioni, con conseguente decremento degli aspiranti avvocati (che oggi in Italia si avvicinano ai 120.000) e magistrati (per i quali è invece prevedibile un aumento degli organici). In realtà la riforma, prevedendo la possibilità di un'uscita anticipata dagli studi giuridici già con il conseguimento del titolo triennale, non elude il problema della selettività e prevede anzi che questa prima laurea consenta l'accesso a tutte le professioni (con l'eccezione delle tre forensi "classiche" sopra indicate) per le quali è oggi previsto il requisito della laurea quadriennale. A parte i problemi normativi residui non superati da tale equiparazione forse un po' troppo semplificatoria (ad esempio, siamo proprio certi che la laurea triennale sarà idonea per l'accesso in diplomazia o all'alta dirigenza pubblica?), rimane la difficoltà di confezionare un comune corso di laurea triennale che consenta, ad alcuni, l'acquisizione delle basi per una ulteriore formazione specialistica e ad altri l'acquisizione di una professionalità immediatamente spendibile sul mercato del lavoro. Al di là di questa difficoltà, occorre anche registrare come, accanto alla laurea triennale in scienze giuridiche, il nuovo ordinamento preveda un'ulteriore classe di studi denominati servizi "giuridici": anche quest'ultima è preordinata all'acquisizione di profili professionali (corrispondenti ai diplomi del vecchio ordinamento) identificati con i ruoli dell'operatore giuridico d'impresa, del consulente del lavoro, dell'operatore giudiziario, dell'informatico giuridico. Questa classe triennale di studi è priva di una prosecuzione in una classe di laurea specialistica ed inoltre non consente (per la distribuzione pluridisciplinare dei crediti) l'ammissione alla laurea biennale in giurisprudenza. Se poi consideriamo che la riforma prevede un'ulteriore classe triennale di studi con una significativa (anche se non preponderante) componente di formazione giuridica - intitolata alle scienze di governo e dell'amministrazione e dotata di un proprio omogeneo successivo ciclo biennale di specializzazione - destinata alla formazione del personale della pubblica amministrazione, non risulta agevole individuare in via residuale i profili professionali tipici della laurea in servizi giuridici. È da ritenere, di conseguenza, che quest'ultima si verrà a configurare come un passaggio interlocutorio indirizzato verso la laurea specialistica (confermando l'esperienza francese dove oltre l'80% di chi consegue la license giuridica triennale prosegue poi per un ulteriore anno verso la maitrise). Da un lato, dunque, la riforma è volta a valorizzare la specificità degli studi giuridici destinati alle professioni forensi tradizionali, ma, dall'altro sembra prevedere che le facoltà di Giurisprudenza possano (o debbano, a fronte delle prospettive di calo delle immatricolazioni) attivare iniziative didattiche plurime in competizione fra di loro e inadeguate, in contrasto con i proclamati obiettivi della riforma stessa, ad agevolare la mobilità dei percorsi formativi degli studenti. Sotto questo profilo occorre ripetere ancora una volta che solo a livello di autonomia d'ateneo si potrà garantire la predisposizione di un'offerta didattica e formativa adeguata alle esigenze di crescita qualificata della nostra Università e alle aspettative dell'intero contesto sociale e territoriale.



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