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  speciale 3+2  
Economia
Il mondo delle imprese chiede cultura
di Enrico Zaninotto

Dopo quasi due anni di dibattito sull'introduzione dello schema di attuazione della autonomia didattica degli atenei il popolo dei dubbiosi si scopre improvvisamente numeroso. Motivi per dubitare della riforma ce ne sono, per la verità, in abbondanza e ho già avuto modo di evidenziarli in altre occasioni: gli obiettivi (condivisibili) che essa dichiara di proporsi, dalla riduzione del tempo di studio, alla omologazione con i sistemi universitari europei, paiono poco coerenti con il contenuto della riforma, oppure potevano essere ottenuti con mezzi più consoni. Ma, nonostante su questo ci sia molto da dire, molte critiche (tardive) vertono su altri temi e dimenticano i molti mali di cui il nostro sistema universitario soffre. Vorrei, in particolare, mettere in luce una critica corrente, ma a mio giudizio inconsistente, e capire che cosa si può fare per cogliere positivamente gli importanti spazi di autonomia che sono lasciati agli atenei.
La lamentela corrente a cui mi riferisco è che, con la riforma, si avrebbe un abbassamento del livello degli studi o, come si dice in modo irriguardoso rispetto ai nostri colleghi delle scuole di ordine inferiore, una "licealizzazione" dell'università. Che cosa si voglia intendere con questo non mi è chiaro. Forse che gli studenti dovrebbero sedere sui banchi di scuola e frequentare regolarmente? Ma se questo fosse il risultato della riforma ne sarei ben contento! Oppure che finiremmo per avere una università "per molti"? Ma credo che anche questo sia un bene: o forse ci piace l'università dei molti iscritti e dei pochi laureati? E ancora: si ha paura che i docenti universitari diventino come i loro sfortunati colleghi delle superiori e debbano preoccuparsi di che cosa gli studenti apprendano e non solo di fare la lezione e andarsene? A me, per la verità, anche questo sembra positivo e sarei disposto a essere non dico "licealizzato", ma "elementarizzato" se sapessi che in quel modo gli studenti potrebbero apprendere meglio.
Ma forse c'è un altro modo per interpretare il pericolo che si paventa. Si può immaginare di realizzare una laurea triennale in molti modi: si possono anzitutto "zippare" i corsi attuali per ottenere così una laurea che si svolge formalmente in tre anni, ma nella sostanza dura quanto quella di adesso; oppure si può tentare una drastica semplificazione un po' di tutti i corsi per avere studenti laureati in tre anni, ma con una preparazione molto povera. È presumibile che sia la prima, sia la seconda strada saranno perseguite da alcuni atenei. Ma si possono anche immaginare percorsi di formazione completi e sensati che portino gli studenti a ottenere in un triennio una adeguata preparazione di base impostando accuratamente le attività, riducendo le sovrapposizioni, orientando l'insegnamento al risultato formativo che si vuole ottenere.
Il problema è però proprio qui: come è possibile delineare con chiarezza l'obiettivo di una formazione universitaria triennale? Non accadrà che il mercato porti a rincorrere obiettivi formativi che poco hanno a che vedere con la natura dell'università e che sarebbero più appropriati per altri tipi di scuole, meno legate alla attività di ricerca? Se così fosse avremmo, con il 3+2, una formazione certamente più adeguata alle necessità della società, ma non una "formazione universitaria" (di qui, forse, il significato più ragionevole di quell'inaccettabile termine che è "licealizzazione").
Nella mia Facoltà, per riflettere su questo, ci siamo fatti aiutare da esperti e persone che operano nel mondo dell'industria e delle professioni. La risposta è stata ben diversa da quella che temevamo: le aziende, quelle grandi come quelle piccole, vogliono persone aperte, con una buona cultura di base, in grado di "conoscere", di essere curiosi, di elaborare in modo autonomo le risposte ai problemi. Non ci è stato rimproverato di non fornire l'ennesima tecnica, bensì - pensate un po' - di fare poca storia del pensiero economico! Certo, di questa apertura culturale fa anche parte la capacità di accostarsi al mondo del lavoro come a un mondo interessante, ricco, la capacità di mettere in opera le conoscenze - anche quelle più astratte - e non lasciarle a depositare nei libri dove servono, al più, per superare un esame. Insomma, abbiamo scoperto che il mondo delle imprese non chiede all'università cose diverse da quello che l'università può dare, chiede cultura e capacità di conoscere, ma ci invita a due cose. Anzitutto a fare sì che lo sviluppo di tali capacità sia effettivo e non effimero, costituisca una abilità reale che informa l'agire. In secondo luogo chiede di avvicinarsi all'impresa per comprenderla come luogo di produzione non solo di beni e servizi, ma anche di conoscenze, di evitare una formazione che allontani, o addirittura - com'è talora accaduto - porti a guardare con sospetto il mondo del lavoro. Credo che operando in questa direzione i timori di una diminutio dell'università svaniscano; forse non quelli di diminutio degli universitari, ma solo qualora questi si dipingano ancora come clerici, custodi unici del Sapere.