LA
SOCIOLOGIA IN GERMANIA E LE RELAZIONI ITALO-TEDESCHE
di Karl-Siegbert Rehberg
Preside della Facoltà di Sociologia - TU Dresden
I. Storie parallele
Avendo l'onore di partecipare da Dresda alla cerimonia di inaugurazione dell'anno
accademico dell'Università di Trento vorrei dare il mio contributo con alcune
brevi riflessioni sulla posizione della sociologia nelle nostre rispettive "nazioni
in ritardo". Questa formula, riferendosi alla formazione nazionale della Germania,
venne coniata da filosofi come Helmuth Plessner e molti altri storici che, come
già Karl Marx, credevano di riconoscere una "via tedesca speciale" ("deutscher
Sonderweg") nella storia europea. Ma oggi anche i difensori di questa ipotesi
affermano che nella storia reale esistono solamente "vie speciali", che non
ci sia uno schema di sviluppo sociale. Si possono tuttavia osservare alcune similitudini
nelle comuni condizioni storiche. Sappiamo bene che la storia dell'Italia e della
Germania era tradizionalmente intessuta dal "Sacro Romano Impero di nazione
tedesca" fino all'alleanza disgraziata tra Mussolini e Hitler. Ma è anche importante
ricordare che al più tardi da quando Winckelmann è venuto da Dresda alle sorgenti
dell'antichità "vera", cioè dall'epoca di Goethe, l'Italia è diventata il
paese immaginario dei tedeschi, dapprima degli artisti, ma dopo anche dei letterati
e degli intellettuali, in generale dei borghesi eruditi (che seguivano in maniera
propria gli itinerari del Grand Tour dei nobili), fino alle masse turistiche odierne.
E l'Italia era anche un rifugio per esempio per motivi di salute (come per Max
Weber), professionali (come per Michels che ha mutato a Perugia e Torino da Robert
a Roberto) o un esilio per molte persone perseguitate dal regime nazista tedesco
come "ebraiche". Oggi per fortuna i legami sono molto diversi: con il Trattato
di Roma cominciò una trasformazione di questa lunga storia parallela dei nostri
paesi tra forme cooperative democratiche e pacifiche. Questa è anche la base per
la cooperazione tra le nostre università.
II. Punti di partenza storici
Forse l' introduzione è un po' estesa per una breve illustrazione. Tuttavia, le
ricerche sociologiche e lo sviluppo delle teorie di questa disciplina non possono
essere scisse dalle cornici della storia. La nostra scienza è nell'insieme un
prodotto culturale dell'ottocento e del novecento, anche se la maggior parte dei
suoi complessi di problemi è molto più antica. La sociologia accademica moderna
si è sviluppata - come mostrava Georg Simmel - con l'ascesa della società di massa
nell'era dell'industrializzazione, e rappresenta il sapere interpretativo del
moderno. Questa scienza offre l'analisi basale del sociale, ma resta sempre legata
a delle interpretazioni del tempo, fino ad oggi, fino alla "società postmoderna",
"postindustriale", quella del "rischio" o quella dell' "avvenimento",
"il secondo moderno" (o come si vogliono comunque chiamare i concetti interpretativi).
Con l'ascesa della sociologia accademica sono sorte immediatamente, diverse in
ogni paese, le contestazioni circa la sua legittimità. Persino in Francia essa
non poté affermarsi senza contrasti politici. Solo il progetto politico della
Terza Repubblica Francese di creare una religione secolare illuminista e una morale
civica, rese possibile all'inizio del nostro secolo il suo felice ingresso nella
più importante università parigina. Non mancarono tuttavia degli scritti polemici:
"Alla Sorbona
si parla tedesco, inglese, russo, ungherese e gli idiomi della Valacchia e della
Manciuria - per non parlare dei gerghi tecnici, che solo i sociologi sanno - per
contro abbiamo che attualmente un buon francese non viene usato, né scritto da
nessuno" (cit. da Wolf Lepenies, Le tre culture, 1987).
Però, dopo questo successo fino agli anni ´50 la sociologia in Francia rimase
poco istituzionalizzata (c'erano solo cinque cattedre). Anche in Italia, che alla
nostra disciplina ha donato un classico come Vilfredo Pareto e che con la "Rivista
Italiana di Sociologia" del 1897 ha dato vita ad uno dei primi periodici specializzati,
si giunse molto più tardi ad una istituzionalizzazione della sociologia. Così
la prima cattedra dedicata a questa materia venne occupata nel 1948 da Camillo
Pelizzi e la seconda soltanto nel 1961 da Franco Ferrarotti a "La Sapienza".
Un anno dopo venne fondato l'Istituto Superiore di Sociologia di Trento, da cui
più tardi nacque la Vostra Facoltà di Sociologia, con la quale abbiamo oggi la
felice opportunità di collaborare. Forse potrebbe essere significativo che questo
centro della nostra disciplina non si sia sviluppato al centro dello stato italiano
e delle vecchie istituzioni, ma in forma sperimentale in una regione di confine,
che costituisce oggi l'apertura alle culture europee.
Anche in Germania è esistita un'opposizione forte alla sociologia, che non venne
portata avanti dagli eruditi filologi (come in Francia), né dalle influenze del
Neo-Hegelianismo di Benedetto Croce (come in Italia) ma principalmente dagli storici
come il conservatore prussiano Heinrich von Treitschke o Georg von Below, che
contro l'introduzione della sociologia in tutte le università tedesche nella Repubblica
di Weimar affermò sarcasticamente che non si trattava di una disciplina scientifica
ma di un "istituto per noleggio di maschere verbali" ("Wort-masken-ver-leih-in-stitut").
Ma ciò nonostante per quanto riguarda lo sviluppo della sociologia, la Germania
non è stata in alcun caso una "nazione in ritardo". Una delle fonti del pensiero
sociologico tedesco era stata fin dall'ottocento la speranza in una canalizzazione
del capitalismo attraverso la politica sociale. Di particolare importanza è ricordare
che furono i più giovani membri della "Società per la politica sociale" ("Verein
für Sozialpolitik"), nato nel 1872 che con la fondazione della Società Tedesca
di Sociologia (Deutsche Gesellschaft für Soziologie) nell'anno 1909 crearono una
cornice organizzativa per una scienza accademica, che rimanesse libera da "giudizi
di valore" ("Werturteilsfreiheit").
III. Dalla generazione fondatrice alla sociologia del dopoguerra
Lo sviluppo della sociologia tedesca nei primi due decenni del nostro secolo fu
contrassegnato da una "generazione di fondatori" come Georg Simmel, Ferdinand
Tönnies, Max e Alfred Weber, Werner Sombart ed altri.
In Germania i temi di questo tempo erano elaborati sotto il fascino dello stabilimento
del capitalismo come fondamento materiale e motivazionale della modernità, si
pensi alla "Filosofia del denaro" (1900) di Georg Simmel, agli ampi
studi sul "capitalismo moderno" (1902) di Werner Sombart o l'ipotesi
celebre di Max Weber sui legami causali tra "etica protestante e lo spirito
del capitalismo" (1904), ma anche a Ernst Troeltsch, Eberhard Gothein e molti
altri. Dall'altro lato c'era un interesse intenso verso i processi di potere cioè
a soggetti strettamente legati alla genesi dello stato nazionale. Di nuovo devo
menzionare Weber con la sua sociologia del dominio. Questi interessi tematici
trovano corrispondenza in quelli degli "elitisti" italiani, con le teorie
della circolazione delle élites, delle tecniche della conquista, dell'equilibrio
e della caduta del potere. Questo sta nella tradizione dell'analisi di Macchiavelli
parlando metaforicamente dei leoni e delle volpi. Sebbene molti autori tedeschi
abbiano dedicato la loro attenzione al calvinismo, pietismo ed altre forme della
religiosità protestante, l'Italia rimaneva importantissima anche per loro tanto
come culla della razionalità capitalistica quanto come uno dei paesi d'origine
della metodizzazione della vita mediante una "razionalità di valore" monastica.
Certo, i legami reciprochi tra le sociologie in Italia e Germania non sono limitati
ai primi due decenni del nostro secolo - ricordando solo l'importanza che aveva
l'Italia per i lavori di Niklas Luhmann - ma non ci sono più state tante affinità
elettive tematiche più intense e congeniali. Oggi i discorsi internazionali (per
esempio la "globalizzazione") sono sempre più decisivi anche per i nostri
paesi.
Tornando alla Germania, nella generazione accademica negli anni '30 e '40 si svilupparono
singoli centri di ricerca. La prima cattedra dedicata interamente alla sociologia
venne stabilita nel 1925 a Lipsia con Hans Freyer; la seconda fu istituita anche
in Sassonia, nella Sezione di scienze culturali dell'allora Politecnico (oggi
Università) di Dresda con l'esiliato russo Fedor Stepun, il quale i nazisti cacciarono
dall'ufficio nel 1937.
Lo sviluppo della disciplina è stata decisamente impedita se non addirittura completamente
interrotta dal regime nazista. Non fu così semplice come si legge in un articolo
di "La Repubblica", che ha suggerito che "i grandi sociologi
tedeschi erano emigrati o [...] morti nei lager". Dopo la vittoria degli alleati
sulla Germania nazista si giunse ad una situazione di prudente "nuovo-orientamento"
mediante l'impulso programmatico della "re-education". Già nel settembre
1946 ebbe luogo il primo congresso tedesco di sociologia del dopoguerra, un evento
intellettualmente poco glorioso, durante il quale Leopold von Wiese come presidente
dei sociologi tedeschi oracoleggiò in parole dissimulanti - come largamente diffuso
dopo l'autodistruzione tedesca - che sarebbe "venuta la peste sugli uomini,
dall'esterno, senza preparazione, come un perfido attacco", che Hitler sia stato
un "mistero metafisico".
La formula determinante dopo il ´45 fu quella - oggi di nuovo attuale - della
"fine delle ideologie". I "grandi concetti" teorici e politici dovevano
essere sostituiti da una vera ricerca empirica. La sociologia - così rivendicò
per esempio René König - "non dovrebbe essere altro che sociologia", e non
filosofia della storia né riflessione fondamentale e critico-culturale della società.
In questa situazione vennero sviluppati studi importanti nel campo della sociologia
dei comuni, dell'industria, della teoria di stratificazione sociale, studi sulla
gioventù e sulla famiglia. Per esempio da Helmut Schelsky i cui libri "La
generazione scettica" ("Die skeptische Generation") o "La società
livellata del ceto medio" ("Nivellierte Mittelstandsgesellschaft") diventarono
delle formule di autointerpretazione della società del dopoguerra.
IV. Sociologia come "normal science"
Una decisiva spinta all'istituzionalizzazione della disciplina seguì - come in
Italia -solo con il movimento studentesco del '68. All'ovest la sociologia divenne
allora per breve tempo una "scienza-guida". Nel contesto della rinascita
del marxismo critico sembrò che la sociologia fosse la "scienza critica"
per eccellenza.
Giudicando l'attuale stato della nostra disciplina, prima è ovvia la sua espansione
in ambito universitario, dai primi anni '70 nella Germania dell'Ovest e, dopo
l'unificazione, dagli anni '90 anche nella maggioranza delle università dell`Est.
Al momento in Germania si può studiare sociologia in almeno 60 università.
Quindi, la sociologia è in molti campi di ricerca ben stabilita. Inoltre alcune
indagini sulle possibilità d'impiego degli studenti condotte in varie università
(non esiste ancora una statistica generale per tutta la Germania) indicano risultati
di gran lunga migliori di quelli previsti. La tipica figura del tassista laureato
in sociologia, ricercando nel campo forzatamente, è uno stereotipo. Purtroppo
la disoccupazione dei laureati è nell'insieme in aumento (nel frattempo addirittura
anche tra gli ingegneri e i medici). È difficile precisare la disoccupazione nelle
distinte aree di impiego, ma è stato stimato che il tasso di disoccupazione fra
i laureati in scienze sociali è paragonabile a quello dei laureati nei campi della
chimica, della fisica o della biologia. Nondimeno sarebbe uno sbaglio orientare
gli studi opportunisticamente solo verso i campi di lavoro, perchè soltanto chi
dimostra una solida qualificazione nella disciplina accademica e dà prova di essere
in grado di risolvere autonomamente problemi scientifici ha una concreta possibilità.
Nello stesso tempo è però anche fondamentale esercitare l'orientamento lavorativo
e ciò dovrebbe essere compito delle università.
Lo stato attuale della sociologia nelle università tedesche e nel sistema di ricerca
potrebbe portare a una professionale contentezza di sè. Ma mi sembra manifesto
che l'espansione della sociologia sia collegata a una diminuzione della sua attrazione
intellettuale. Certo - se così posso dire - la nostra disciplina è poli-paradigmatica,
unendo le più diverse teorie, impostazioni e metodi. Sotto la condizione di questo
pluralismo è diventata una "normal science".
In ogni caso la sociologia non è più una "scienza guida" le cui categorie sarebbero
adattate avidamente alle altre discipline. Ma il suo successo portò delle categorie
sociologiche nel sapere quotidiano in un processo di "trivializzazione".
In ogni caso la sociologia è rimasta sempre anche una scienza della riflessione,
forse proprio una "delle crisi" e per questo strettamente legata alla critica
attuale degli intellettuali. Questi discorsi non presentano l'efficienza della
disciplina, ma senza di loro si inaridisce ad un puro inventario. Così si vedono
sempre più sociologi anche nel ruolo di critici intellettuali dell'epoca, si pensi
per la Germania a Jürgen Habermas e per la Francia a Pierre Bourdieu.
V. La cooperazione Trento-Dresda
Per finire torniamo alle nostre università: la novità coraggiosa di un corso di
studi in sociologia con bi-laurea, organizzato congiuntamente dalle Università
di Trento e di Dresda è un passo importante nella direzione di una "internazionalizzazione"
(una parola di moda della odierna politica universitaria). Essa non deve portare
ad una schematizzazione del sapere e degli studi, perché le scienze culturali
sono strettamente legate alle specifiche lingue nazionali e tradizioni di pensiero.
Al contrario i nostri corsi in economia e sociologia contribuiscono ad una internazionalizzazione
a livello qualitativo. In questo senso il nostro corso di studi comune
è un contributo a un futuro europeo dove internazionalità e regionalismo culturale
troveranno nuovi legami.
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