Intervista al professor Marino Niola

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di Elisabetta Brunelli

Sono come delle pennellate le parole di Marino Niola mentre risponde alle domande su tradizione, mutamento e contaminazioni culturali in cucina, sui disturbi del comportamento alimentare e sui rischi che si possono nascondere dietro alla tutela dei prodotti locali. «La cucina – afferma - è emblema di mescolanza. La tradizione è un tramandare cambiando. E il lievito, come lo straniero, è ciò che fa crescere la pasta». Poi uno sguardo ai modelli di bellezza di ieri e di oggi. Facendo riferimento a quadri di Renoir e film di Scorsese, modi di dire, ricette tipiche della cucina italiana, Niola alla luce dei suoi studi invita a soffermarsi sull’atto apparentemente semplice del mangiare e stuzzica la voglia di saperne di più.

Professor Niola, la gastronomia facilita l’incontro tra tradizione, mutamento e contaminazioni interculturali?

«Sì, la cucina agevola l’incontro. La cucina fa della tradizione il suo certificato di identità, ma in realtà in cucina si osserva molto bene il cambiamento, la contaminazione. D’altra parte la tradizione non è sinonimo di qualcosa di immutabile, di statico. È un processo che avviene attraverso la selezione di alcuni fili per annodarsi con il futuro. Il termine “tradizione” deriva dal verbo latino “tradere”, che significa “consegnare” e “trasmettere”, ma che è anche all’origine del verbo italiano “tradire”. La cucina è tradizione nel senso che è motore di ricerca e di contaminazione. Le stesse ricette non le cuciniamo sempre nelle stesso modo».

Le aspirazioni, passioni, paure e ansie dell’immaginario contemporaneo come si riversano nelle abitudini e nei disturbi del comportamento alimentare?

«Si riversano in maniera particolarmente forte. Desideri, sogni, timori, incubi e contraddizioni si rispecchiano nella cucina, nel modo di consumare e di alimentarsi. Nell’Occidente obeso, che consuma molto di più di quanto riesca a produrre e a smaltire, vediamo un numero crescente di persone che decidono di non mangiare. È una distrofia del benessere. Il cibo da questione dietetica diventa questione etica, i comportamenti alimentari vengono quasi sacralizzati, diventano precetti e forme di religione dedicati o imposti non da Dio, ma dall’io. Assistiamo al diffondersi dell’ortoressia, un’attenzione patologica per ciò che si mangia. Nell’ossessione della leggerezza, nella paura della contaminazione, nella ricerca spasmodica della salute e della salvezza l’immaginario religioso e quello alimentare si confondono e si sovrappongono. L’ossessione per la qualità e la quantità del cibo fa della nostra alimentazione una cittadella assediata nella quale ci si arrocca. Il crudismo e il veganesimo, solo per fare due esempi, diventano atteggiamenti da sette sacrali, i cui membri esprimono spesso sentimenti di superiorità verso chi non è magro e mangia di tutto. C’è una stigmatizzazione costante degli obesi, dei clienti dei fast food e dei consumatori delle taglie forti. Vengono considerati, soprattutto in alcuni Paesi, delle bombe contro il sistema sanitario pubblico. Nel Medioevo la grassezza eccessiva era considerata un peccato e la magrezza era sinonimo di bruttezza perché si condannava la dismisura. Oggi i ricchi sono magri e i poveri grondano grasso».

Crede che, in alcuni casi, la tutela dei prodotti locali con l’introduzione di varie certificazioni di origine possa nascondere delle punte di xenofobia?

«Invece che di certificato di origine, credo sarebbe più corretto parlare di certificato di domicilio perché i cibi diventano “tipici” non lì dove nascono, ma laddove trovano le condizioni ideali e vengono usati. Pensiamo alla “fortuna” del pomodoro. Al di là del tipo di certificazione, il rischio di strumentalizzazione in chiave xenofoba ci può essere se viene fatto un cattivo uso dell’identità. L’identità è un concetto dinamico, in continuo divenire. Le identità sociali sono isole in mezzo alla corrente e sono sempre meticce, risultato di mescolanza. E la cucina è un emblema di mescolanza. Pensiamo a ciò che avviene quando il lievito, che è un agente estraneo, entra nella pasta. Il lievito è un po’ come lo straniero. Temutissimo perché altera il corpo sociale, ma lo fa crescere».