CINQUANT’ANNI DOPO IL DISASTRO DEL VAJONT

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260 milioni di metri cubi di rocce, 1917 vittime e una tragedia frutto di comportamenti umani legati al profitto. Un seminario e una mostra
di Eugenio Caliceti

La Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento ha ospitato, lo scorso 16 ottobre, un incontro sul disastro del Vajont, avvenuto il 9 ottobre 1963. Moderato dalla dottoressa Lucia Busatta, assegnista presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento, l’appuntamento, che ha inaugurato il IV ciclo dei Percorsi di Memoria e Diritto, è stato arricchito dagli interventi della presidente dell’Associazione culturale Tina Merlin, Adriana Lotto, del dottor Eugenio Caliceti, docente a contratto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento e dall’avvocato Nicola Canestrini.

I fatti del Vajont possono essere compresi grazie alle immagini proposte da Lucia Busatta, nelle quali si ritrae l’abitato di Longarone prima e dopo che una frana rovinasse nell’invaso artificiale da poco terminato. Impressionanti sono i numeri che rappresentano l’entità dello smottamento: 260 milioni di metri cubi di rocce e terra distaccatisi su un fronte di più di 2 km. L’onda che ne seguì si abbattè sui paesi circostanti, causando 1917 vittime. Tra tanta rovina ciò che rimase fu la diga, opera di una avveniristica ingegneria umana, così raffinata da permetterle di superare indenne l’evento che essa stessa avrebbe dovuto evitare. Ripetute furono le avvisaglie di ciò che si stava preparando: una serie innumerevole di scosse, smottamenti e terremoti impossibili da ignorare ma sempre minimizzati dalle Istituzioni. Tra il prima e il dopo vi fu il brusio di timori confidati tra vicini nelle strade di piccoli borghi di montagna, amplificato fino a raggiungere, grazie all’impegno di un coraggioso giornalismo civile, l’attenzione della stampa nazionale.

Ad Adriana Lotto è stato affidato il compito di ricordare la figura di Tina Merlin, giornalista dell’Unità che portò all’attenzione dell’opinione pubblica non solo i soprusi subiti dalla comunità locale, ma anche quelle frane, quegli smottamenti e quelle scosse che, anticipatrici del disastro, i quotidiani locali, come Il Gazzettino, ignorarono, in ossequio al potere allora rappresentato dalla società responsabile dell’opera, la SADE. A Tina Merlin si deve la coraggiosa denuncia dei rischi e delle responsabilità connesse alla costruzione della diga. Grazie a lei, le parole di chi avrebbe subito le conseguenze del disastro divennero udibili, seppur inascoltate dalle istituzioni.

È seguito l’intervento di Eugenio Caliceti, che dopo aver individuato il quadro legislativo in base al quale l’opera del Vajont venne autorizzata, ne ha raffrontato i contenuti con quello attualmente in vigore, al fine di valutare se l’evoluzione normativa intercorsa avrebbe potuto impedire il verificarsi del disastro. L’introduzione e il rafforzamento degli istituti partecipativi nel procedimento avrebbe certamente reso più difficile, per la pubblica amministrazione, giustificare l’autorizzazione alla costruzione dell’opera. Il sussistere di alcuni vizi formali da un lato – come l’approvazione del progetto da parte del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici reso pur in assenza del numero legale – e l’ampliamento, dall’altro lato, dell’ambito nel quale il giudice amministrativo può legittimamente valutare la bontà della valutazione tecnica svolta dalla pubblica amministrazione avrebbe, in seconda battuta, potuto permettere l’annullamento del provvedimento su impulso di associazioni rappresentative di interessi diffusi. Ma la partecipazione al procedimento non avrebbe precluso la possibilità, per la pubblica amministrazione, di autorizzare la costruzione dell’opera. Allo stesso tempo l’annullamento del provvedimento non avrebbe impedito la riemanazione di un successivo atto autorizzatorio, seppur compatibile con quanto statuito in sede giurisdizionale. Permane una discrezionalità politico-amministrativa in capo alla pubblica amministrazione che neppure i principi di prevenzione e di precauzione avrebbero potuto limitare, essendo questi ultimi incapaci di individuare, in maniera certa, standard valutativi e comportamentali determinati.

L’incontro si è concluso con l’intervento di Nicola Canestrini, il quale ha affrontato i profili problematici emersi nel processo giudiziario posto a carico di diversi soggetti con l’accusa di disastro colposo di frana aggravato dalla prevedibilità dell'evento, inondazione e omicidi colposi plurimi. Il processo è stato posto a carico non solo della dirigenza della SADE, ma anche dei periti che firmarono le relazioni geologiche di volta in volta presentate e dei funzionari del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici e del Genio civile, in quanto organi cui spettava il controllo sulla veridicità delle informazioni rese dalla SADE, ma che per omissioni conniventi non furono mai, nella sostanza, verificate. Il punto cruciale sul quale si giocò l’intera vicenda processuale riguardò la prevedibilità dell’evento, da cui dipendeva, in sostanza, il grado della responsabilità imputabile a chi avrebbe dovuto e potuto evitare il disastro. Le vicende processuali si conclusero nel marzo del 1971 con il ricorso per Cassazione, che, confermando l’appello, condannò con pene lievi solo il Capo del servizio dighe del Ministero dei Lavori pubblici e il Direttore del Servizio costruzioni idrauliche della SADE per i reati di inondazione aggravata dalla previsione degli eventi, compresa la frana e gli omicidi.

Il disastro del Vajont costituisce un esempio di cosa possa accadere ove interessi economici di rilievo nazionale convergono su territori prima periferici, determinando, in nome della massimizzazione dell’utilità generale, la modificazione di destinazione d’uso di un intero territorio e la parziale espulsione della comunità locali dai territori prima identitariamente abitati. Le vicende del Vajont, inoltre, rappresentano in maniera esemplare i rapporti di convergente interesse, tra le oligarchie pubbliche e private, che hanno plasmato, mascherando ciò che è privato per pubblico, le sorti dello sviluppo nazionale. Ma se la storia del Vajont si esaurisse in tali profili, non sarebbe qualcosa di differente rispetto alle molte testimonianze di una progressiva "colonizzazione di mondi vitali", compiuta attraverso ramificazioni clientelari che, dal centro fino alle periferie, hanno risolto corporativamente, in un livello pre-istituzionale, i conflitti connessi al mutamento sociale ed economico. A caratterizzare, invece, tale disastro, rendendolo quello che esso rappresenta nella coscienza collettiva, è la consapevole volontà di trarre profitti privati dalla realizzazione di un’opera che con probabilità quasi certa avrebbe causato la morte di un indeterminabile numero di persone.

Il disastro del Vajont fu, in definitiva, il frutto di comportamenti umani, seppur colposi, e non una tragedia naturale legata a eventi imprevedibili, tesi avanzata da autorevoli e lucide voci della stampa nazionale. Anche attraverso il corretto uso pubblico delle parole, cui si ricorre per descrivere i fatti di cui si mantiene memoria, è possibile quindi evitare la rimozione selettiva di eventi e responsabilità, che mal si concilia con l’impegno a ristabilire, proprio attraverso la memoria, giustizia e verità per le vittime.