© Wanja Jacob - Fotolia.com

FARMACI CHE AIUTANO NELLO STUDIO?

in
La riflessione sui farmaci a potenziamento cognitivo aprono gli Incontri di Biodiritto
di Carlo Casonato

Perché vietare l’utilizzo dei cosiddetti farmaci a potenziamento cognitivo (FPC) che potrebbero aiutare gli studenti universitari (ma non solo loro) a migliorare le proprie prestazioni mnemoniche e di apprendimento?

Da questo interrogativo, rivolto alla comunità scientifica per la prima volta su Nature nel 2008 (Towards responsible use of cognitive-enhancing drugs by the healthy), ha preso spunto la lezione inaugurale Incontri di Biodiritto 2013 svolti all’interno del corso offerto ormai da oltre dieci anni a Giurisprudenza. La lezione, intitolata “Enhancement: un recente problema bioetico e biogiuridico”, è stata tenuta lo scorso 26 marzo da Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento. La professoressa Palazzani ha illustrato un recente parere dello stesso Comitato (pubblicato il 13 marzo scorso) descrivendo le posizioni favorevoli e quelle contrarie ad un utilizzo di tali farmaci. Inutile dire che le posizioni si sono divise anche radicalmente. A fronte dei “perfezionisti” o “tecnofili”, che vorrebbero una liberalizzazione dei farmaci a potenziamento cognitivo basata sulla prevalenza del principio bioetico di autonomia, così, si pongono gli “antiperfezionisti” o “tecnofobi” che sulla base di considerazioni legate alla dignità umana ed ai rischi di una aumentata ingiustizia sociale, intendono tali farmaci come l’ennesimo tentativo di agire “contro-natura”.

Al di là della radicalizzazione di tali posizioni, ciò che risulta più interessante ha a che fare con una nuova sfida a concetti e definizioni che già da tempo sono di incerta lettura. Il fatto che i farmaci a potenziamento cognitivo potrebbero essere utilizzati anche per eliminare selettivamente ricordi sgradevoli o controllare stati emotivi indesiderati, porta a rinnovare gli interrogativi sulla definizione più opportuna di salute e in particolare sulla prevalenza della sua componente soggettiva rispetto a quella oggettiva. Sulla stessa linea, che limiti porre alla autopercezione degli stati di malattia, piuttosto che al riconoscimento, che potrebbe anch’esso essere tutto individuale, degli effetti terapeutici di un prodotto o di una pratica?

Se pensiamo ai profili legati alla giustizia sociale, un forte interrogativo riguarda la possibilità che una eventuale liberalizzazione dei farmaci a potenziamento cognitivo si trasformi in un ulteriore causa di discriminazione su basi economiche, riservando aumentate chances “intellettuali” e professionali per chi si può permettere l’acquisto dei farmaci. La stessa idea di meritocrazia (if any), potrebbe così essere irrimediabilmente contaminata da una sorta di doping cognitivo.

Fra le altre riflessioni sollecitate da tale tematica, si pensi alla sicurezza o al rapporto costi-benefici-effetti collaterali di farmaci utilizzati off label, emerge quella legata al modello di “intelligenza” che l’utilizzo dei farmaci a potenziamento cognitivo pare presupporre. Non è escluso che un potenziamento della memoria possa avere un impatto nullo sulla capacità di collegare le diverse informazioni o addirittura negativo sul potenziale creativo e di immaginazione. Se questo fosse vero, l’assunzione dei farmaci potrebbe avere un effetto complessivamente neutro o svantaggioso sulla cifra intellettuale della persona: “imagination is more important than knowledge” – ha detto qualcuno. E a scanso di equivoci, nella descrizione di alcuni corsi della Facoltà di Giurisprudenza (compreso Biodiritto) è testualmente indicato che “La ripetizione mnemonica dei testi di riferimento viene considerata non sufficiente per il superamento dell’esame”. 

A dispetto delle riflessioni bioetiche e della regolamentazione giuridica in vigore, in ogni caso, va registrato come alcuni studi indichino percentuali che arrivano al 37% di studenti che nei college e università americane (ma anche in Europa) utilizzano ampachine o anfetamine come il metilfenidato per tentare di migliorare le proprie prestazioni intellettuali.

Anche tenendo conto di questi dati, il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica non si esprime in termini negativi, ritenendo non illecito un impiego “saggio e adeguatamente regolato” di potenziali cognitivi che un domani potessero presentare minori rischi e maggiori benefici di quelli odierni. Su tale strada, si considera opportuno avviare procedure di sperimentazione clinica e preclinica; invitare i medici ad assumersi una precisa responsabilità nella prescrizione e soprattutto avviare percorsi di informazione e sensibilizzazione sulle alternative, sociali e legate agli stili individuali e collettivi di vita, già oggi certamente più efficaci di un farmaco comprato in Internet.