Una veduta della sala

GLI ANNI DI PIOMBO: LE TESTIMONIANZE

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La narrazione come strumento per creare uno spazio pubblico della memoria
di Paolo Sommaggio

Il 9 ottobre 2012, presso il foyer della Facoltà di Giurisprudenza si è svolto un incontro dal titolo “Raccontare la memoria: narrazioni e testimonianze tra letteratura e diritto”.

Si tratta di una delle iniziative di «Memoria e Diritto» organizzate dal Dipartimento di Scienze giuridiche e dalla associazione Ora Veglia onlus e che, oltre a coinvolgere docenti e studenti della Facoltà, intende aprire uno spazio di discussione pubblica.

L’incontro, una tavola rotonda sulla ricostruzione e la narrazione della memoria, è stato moderato dal vicedirettore del Corriere del Trentino Simone Casalini e si è svolto attraverso le testimonianze e le riflessioni delle vittime degli anni di piombo: un periodo che ha segnato pesantemente la nostra società. Come opportunamente ricordato dal Direttore del Dipartimento Gianni Santucci, il giurista (ma anche il cittadino), oggi, non può più occuparsi solo delle forme legislative, come ritenevano i giuspositivisti, ma deve concentrare la propria attenzione anche sul tessuto sociale in cui la norma vive. Ed il tessuto sociale è costituito, tra l’altro, dalla memoria cui queste iniziative sono dedicate.

Il primo relatore, Manlio Milani, è stato il presidente della Associazione vittime di Piazza della Loggia (sopravvissuto all’attentato del 1974) ed ha ricordato come l’amnesia sugli eventi del periodo del terrorismo abbia obbligato le vittime ad un isolamento, una sorta di ri-vittimizzazione. Per questi soggetti la parola, il racconto diventa quindi una necessità che consente di creare uno spazio pubblico in grado di superare quella barriera di silenzio che costringe la vittima a rinchiudersi in se stessa.  Portando testimonianza pubblica della propria sofferenza, la vittima trasforma una memoria comunicativa privata in memoria culturale, una sorta di autoriconoscimento sociale. Questo consente di evitare la segregazione che colpisce i testimoni di quei fatti dolorosi, e consente altresì di fortificare il tessuto sociale che il ricordo di quegli eventi può condividere.

Anche Alessandra Galli, figlia del magistrato Guido Galli ucciso da Prima Linea nel 1980, riconosce la difficoltà delle vittime ad uscire dalla dimensione strettamente personale. Le iniziative di pura forma, purtroppo, non consentono di risolvere la questione delle vittime dirette, ma nemmeno di quelle indirette, come ad esempio i familiari, i quali nel racconto possono far conoscere, ma anche scoprire a loro volta, l’impegno dei propri cari ingiustamente scomparsi.

Tersite Rossi, collettivo di scrittori (si ricordano i romanzi E’ già sera, tutto è finito e Sinistri), propone la narrazione come strumento per ‘fare’ memoria. Gli autori si sono soffermati sul modo nel quale la narrativa, con la sua capacità di agire sulle emozioni, consente non tanto una rappresentazione degli eventi come tali, ma aiuta la memoria a non andare perduta. Poiché la cd. ‘narrativa di inchiesta’ ha la capacità di rendere accattivante una trama, il narratore, a differenza dello storico e del giornalista, può costruire storie che si inseriscono in un contesto preciso. In altri termini, inventare storie che si intrecciano con fatti accaduti può aiutare a conservare memoria di quegli eventi, a patto che questa distinzione sia ben indicata dall’autore (ad esempio in una appendice storica).

Il prof. Paolo Sommaggio, docente della Facoltà, ha cercato di trarre alcune conclusioni, attraverso il ricorso a tre parole chiave.

La prima è parresia: si tratta del parlare franco. Poiché il clima culturale contemporaneo ha sempre distinto il piano dei fatti dal piano del linguaggio, la verità ha costituito sempre una relazione tra il linguaggio ed i fatti secondo corrispondenza (relazione tra linguaggio e fatti) o secondo coerenza (relazione tutta interna al linguaggio). Sempre ed in ogni caso si è intesa la verità come un oggetto distinto da colui che si assume il compito di enunciarla. La testimonianza della vittima è invece un modo di dire il vero che non può essere distinto da colui che si assume la responsabilità di questa affermazione. E perciò il suo è il comportamento del parresiaste, ovvero di chi si assume il compito di essere una libera coscienza in un certo contesto civile.

La seconda parola chiave della tavola rotonda è riparazione: i tempi sono infatti maturi per ricominciare a parlare di giustizia dialogica e riparativa (o, come oltreoceano si dice, di Restorative justice) ovvero di un diritto penale incentrato sulla vittima e sulla riparazione del danno, e non più solo sulla irrogazione di sanzioni formali basate sulla prevenzione di certi comportamenti o sulla retribuzione degli stessi.

La terza parola chiave, che tiene insieme le precedenti, è dialogo. Solo in una prospettiva dialogica le istanze delle vittime sono inserite in un contesto comune, che consente di superare l’isolamento, ed accedono ad una autorappresentazione collettiva garanzia di consapevolezza e di maturità civile.

Gli incontri proseguiranno durante le prossime settimane candidandosi a diventare uno dei momenti di approfondimento culturale e civile di cui tanto si avverte oggi il bisogno.