LA FENOMENOLOGIA DEGLI OGGETTI DI USO QUOTIDIANO

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Conversazione con Harvey Molotch della New York University, ospite del progetto di ateneo Scienza, tecnologia e società
di Massimiano Bucchi

Che cosa può dire la forma di un tostapane o di un cavatappi sul nostro mondo e sul nostro stile di vita? Harvey Molotch, sociologo alla New York University, tenta da anni di rispondere a queste domande analizzando oggetti tecnologici di uso quotidiano, design e architettura degli spazi pubblici, grandi infrastrutture tecnologiche come la metropolitana di New York. Il suo "Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono" (Where Stuff Comes From, edito in Italia da Cortina) è divenuto un piccolo classico.
Molotch è stato ospite il 26 ottobre dei seminari Scienza, tecnologia e società dell’Università di Trento. Giunti alla quinta edizione, i seminari erano dedicati quest’anno al tema “Errori e incidenti tra scienza, tecnologia e società”.

Da dove vengono gli oggetti e perché ce ne dovremmo interessare?

Gli oggetti vengono da una combinazione di forze e di processi. Non è solo la tecnologia, non è solo il design, ma anche il modo in cui si è sviluppato il commercio. Qualunque oggetto di uso comune – le penne con cui scriviamo, i tavoli a cui ci sediamo, le toilette che utilizziamo – ha una ricca storia e comprenderla ci aiuta a capire il nostro mondo, dice qualcosa su noi stessi. E questo anche perché gli oggetti contribuiscono a dar forma alle nostre vite, anche se sono fatti da noi. Ne siamo dipendenti, sono nostre appendici, meccanismi che ci permettono di condurre le nostre vite sociali e materiali.

Facciamo un esempio...

La tazzina di ceramica in cui sto bevendo il caffè è l’ultimo anello di una lunga catena di oggetti – la nave che ha trasportato il caffè, la macchina che lo ha tostato, quella che lo ha trasformato in un liquido – che mi permette di bere il caffè caldo. E il caffè non è solo una bevanda, ma un’estensione della nostra socialità, e la tazzina contribuisce a renderla possibile.

Perché allora gli stessi tipi di oggetti prendono forme diverse in diversi contesti?

Il tostapane, ad esempio, è connesso a una serie di altri oggetti e di cose che facciamo. Presuppone un certo tipo di pane, soprattutto nella versione originaria americana del tostapane ‘a espulsione’, presuppone fette di pane già tagliate e della stessa dimensione. Americani e inglesi mangiano pane tostato quando si siedono a far colazione, a differenza degli italiani che spesso prendono un caffè al bancone del bar. Il pane tostato è una parte essenziale del nostro rituale della colazione. Noi abbiamo l’abitudine di spalmare, di mettere vari ingredienti sul pane e il tostapane dà alla fetta di pane la consistenza necessaria… Così, partendo da un oggetto di uso comune si può comprendere una cultura. In fondo è quello che facevano l’antropologia classica e l’archeologia: da una serie di oggetti ricostruire le caratteristiche di una società.

Pensi che i sociologi o gli antropologi del futuro riusciranno a ricostruire i caratteri della nostra società partendo dai nostri iPad o iPhone?

Questo è interessante, perché la vita digitale di oggetti come l’iPad è molto più effimera, può scomparire facilmente come i contenuti dei primi computers di cui non esistono più i software, ma che certamente possono dirci qualcosa dal punto di vista del design. Oggi tutti celebrano Steve Jobs, tra l’altro, per l’estetica dei suoi prodotti, ma quello che ha fatto è stato rendere ordinario lo straordinario, rendere le attività e le interazioni sociali con questi oggetti il più possibile simili a quello che le persone già conoscevano e facevano prima dei media digitali; una nuova tecnologia ha sempre il problema di rassicurare le persone, di agganciarsi a qualcosa di ordinario e familiare. All’epoca dei primi voli in aereo, servire dei pasti era un modo per ravvicinare questa esperienza ad altre esperienze già note: il cavatappi con le ‘ali’ che è sulla copertina del mio libro presuppone familiarità con un certo tipo di leva, che si diffonde a partire da una certa epoca.

Dunque un grande innovatore non è un visionario che immagina la tecnologia e la società del futuro, ma qualcuno che sa connettere l’innovazione a pratiche già esistenti?

Credo che tu abbia ragione, ma ironicamente la visionarietà consiste nell’intuire che la chiave è l’ordinarietà: quanto più riesce a far leva sulle esperienze precedenti e le loro abitudini cognitive, tanto più ha la potenzialità di cambiare il mondo. Un innovatore è qualcuno che comprende la società ed è in grado di catturarla con una killer application, per citare sempre Jobs. La killer application è quella che connette le persone comuni e i loro modi comuni di fare le cose (come ascoltare la musica o trovare la strada di casa), a una nuova tecnologia. La televisione è stata rivoluzionaria in quanto ha permesso di guardare uno spettacolo senza uscire di casa. In questo senso Steve Jobs è stato un grande “assemblatore”, come direbbe Bruno Latour, ha messo insieme il packaging, la musica, la tecnologia, la società.