ALDO MORO: SCRITTI DALLA PRIGIONIA

in
Dialogo con Miguel Gotor, autore del libro "Il Memoriale della Repubblica"
di Riccardo Salomone

La memoria è uno strumento meraviglioso ma fallace. Forse solo il metodo storico, con la rigorosa analisi critica delle fonti, può aiutarci a comprendere appieno il tempo presente smascherando le ambiguità della narrazione del passato.
Con questo spirito la Facoltà di Giurisprudenza ha ospitato Miguel Gotor, giovane storico dell’Università di Torino, già curatore di una raccolta delle 97 lettere di Aldo Moro dalla prigionia, seguite da un importante saggio intitolato “Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scrittura come agonia”. Gotor ora pubblica, sempre per Einaudi, un secondo volume dedicato al Memoriale, cioè alle risposte articolate nella forma di vero e proprio testamento politico, rese da Moro nel “processo” condotto dalle Brigate Rosse durante quei 55 giorni compresi tra marzo e maggio 1978.

L’incontro, del ciclo “Memoria e diritto”, ha offerto ai presenti la testimonianza indiretta di un tratto meno conosciuto della figura di Moro, ma non per questo meno importante: lo statista democristiano come studioso e professore di diritto. In un volume pubblicato pochi anni fa, sono state raccolte le lezioni tenute alla Sapienza nell’anno ’75-’76 e, nell’introduzione del curatore (il più giovane dei suoi allievi, Francesco Tritto), è illustrata perfettamente quella “scintilla umana” che ha legato nel profondo Moro al contesto accademico di cui faceva parte: alla comunità scientifica, ai collaboratori e soprattutto agli studenti per tutti gli anni della sua lunga esperienza nell’università italiana.

La memoria è però costruzione più complessa del ricordo: è un processo individuale e collettivo, ha in sé una dimensione interpretativa e come tale va trattata. Di qui l’importanza dell’angolo visuale dello storico e di uno statuto metodologico come quello proprio della ricerca scientifica: l’intervento di Miguel Gotor ha chiarito che la storia può aiutarci ad evitare i rischi di una “dittatura” della memoria, a capire cosa è bene ricordare e cosa è meglio dimenticare. Il Memoriale, in effetti, è metafora della Repubblica italiana. In questo senso, l’occhio dello storico contribuisce a rendere i materiali che lo compongono - manoscritti originali, dattiloscritti e fotocopie di manoscritto - effettivamente comprensibili, anche nel rapporto con narrazioni successive e dichiarazioni, di quanti, esplicitamente o meno, ad esso hanno fatto riferimento, dagli anni Settanta ad oggi. Qui lo scarto tra il discorso dello storico e quello di altri interpreti si è rivelato assai significativo mettendo in luce, sopratutto, importanti profili rispetto ai quali verità processuale e verità storica non collimano.

La riflessione di Moro, nel suo Memoriale, copre un periodo corrispondente al trentennio che separa il 1948 dal 1978. È un testo composito, politico anzitutto, ma con una forte dimensione morale, se così si può dire. Così, in sintesi, raccontare la “storia” del Memoriale e delle vicende che gli ruotano attorno significa raccontare la storia italiana, dal dopoguerra a noi. Rivelato, poi trovato, ritrovato, considerato del tutto falso, ora avvalorato come riconducibile a Moro, lasciato in cassaforte nell’intercapedine del covo di via Monte Nevoso, utilizzato da molti a molti fini prima e dopo i suoi ritrovamenti. Sul Memoriale hanno costruito le loro fortune alcuni grandi personaggi, nel bene e nel male, della Repubblica. Attorno al Memoriale e, quindi attorno a noi, ancora oggi restano nodi da sciogliere, zone di nebbia fitta che l’analisi di Gotor ci ha aiutato, in una parte significativa, a diradare.