CENTOCINQUANT’ANNI DELL’UNITÀ D’ITALIA

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Ampia partecipazione alle lezioni pubbliche promosse dall’ateneo e dal Museo Storico del Trentino per ricordare l'unificazione nazionale
di Gustavo Corni

Con la lezione di Antonio Chiesi sull’evoluzione della società italiana nella sua lunga storia unitaria, si è concluso lo scorso 8 aprile il lungo ciclo di lezioni pubbliche organizzate dall’ateneo trentino in collaborazione con la Fondazione Museo Storico del Trentino per celebrare il 150° dell’unificazione. È perciò giunto il momento di un bilancio.

La prima riflessione che possiamo fare riguarda la partecipazione del pubblico. È stata del tutto inaspettata - anche secondo le più ottimistiche speranze di chi scrive - sia per quantità che per qualità. L’aula Kessler della Facoltà di Sociologia stracolma, con persone sedute sulle scalinate, ci ha costretti ad aprire in videoconferenza un’aula annessa e anche lì si sono sistemate almeno una ventina di persone. Duecento spettatori a sera, giovani e non; studenti, insegnanti e semplicemente molti cittadini. L’obiettivo che ci eravamo prefissi è stato raggiunto. Ma parlavamo della ‘qualità’ del pubblico. Una grande attenzione, con un centinaio di persone ancora sedute ad ascoltare alle sette e mezzo di sera (un orario in cui solitamente i trentini sono da tempo seduti a tavola per la cena), molte domande e interventi da parte del pubblico verso i relatori. Sono tutti segnali di attenzione e di interesse molto forte.

Rifletteva Gian Enrico Rusconi nel suo intervento dell’11 marzo che non è facile capire se gli italiani sentano in profondità un senso di appartenenza nazionale. D’altro canto, nella lezione precedente Tommaso Detti, docente all’Università di Siena, aveva svolto una parte della sua interessante lezione chiedendosi proprio se sia un ‘male’ che gli italiani abbiano un sentimento di identità nazionale più debole dei francesi, o degli inglesi, o dei russi. Mi sembra invece certo, alla luce dell’attenzione suscitata a Trento da queste lezioni, che il problema della nostra storia unitaria, delle ragioni che ci hanno fatto stare insieme e che ancora ci fanno stare insieme sia sentito da molti cittadini.

Nella prima lezione Alberto Banti, docente all’Università di Pisa, ha affrontato la questione dei motivi che hanno spinto i patrioti, della loro visione del mondo e in particolare della loro idea di patria. Sia Banti che Detti hanno sottolineato come, in confronto con la situazione sociale e culturale del tempo (l’Italia rurale era segnata da un tasso elevato di analfabetismo), il numero di persone, uomini e anche donne, coinvolte nel processo risorgimentale in modo militante, sia stato piuttosto alto. Si possono quantificare nell’ordine di svariate centinaia di migliaia. Certo, un’élite, ma un’élite significativa, alla cui testa stavano gli intellettuali. La loro visione di patria era segnata da valori etnici, di ‘sangue’, imperniati sulla centralità della famiglia, dell’eroismo, del sacrificio, che in alcuni momenti raggiungeva livelli mistico-religiosi. Insomma, un sentire comune fortemente caratterizzato, che ha spinto tante persone a sacrificare la propria vita per una causa ritenuta di assoluto valore. Detti ha messo in evidenza come fra questi patrioti, pur in prevalenza esponenti della borghesia e della nobiltà, vi fossero non poche persone del popolo: artigiani, piccoli commercianti, operai, in qualche caso anche contadini. Le campagne, però, sono state largamente assenti dalla militanza per la causa risorgimentale.

Possiamo, perciò, parlare in un certo senso di una partecipazione popolare; ai “mille” di Garibaldi si sono aggiunti nel giro di pochi mesi svariate altre decine di migliaia di volontari, sia siciliani che provenienti da altre regioni. La partecipazione popolare, seppure con modalità del tutto particolari, è stata consolidata dai plebisciti che hanno accompagnato e sancito il processo di unificazione. Detti ha affrontato la questione di come questo potenziale democratico e di partecipazione sia poi stato dissipato dai gruppi dirigenti liberali dopo il 1861. Il problema cruciale era quello delle campagne e della ferma opposizione dei ceti dirigenti, formati principalmente da possidenti terrieri, a una partecipazione delle masse contadine al processo politico, nel timore che ciò aprisse la strada a richieste (magari violente, come in effetti accadde) di ridistribuire le terre, assecondando la fame di possesso della popolazione rurale.
Sia Banti che Detti hanno proposto una lettura aggiornata dei motivi che ci possono fare stare assieme oggi, rigettando la validità di un patriottismo etnico, che pur ha avuto importanza centocinquant’anni fa. Entrambi hanno posto l’accento sul patriottismo costituzionale, che solo può tenere uniti e dare senso alla convivenza, oggi e per il prossimo futuro, agli abitanti della penisola, italiani e immigrati. Un patriottismo costituzionale fondato sui valori della democrazia e della partecipazione.

Nella terza lezione Gian Enrico Rusconi, già docente all’Università di Torino, ha affrontato il tema del Risorgimento dal punto di vista internazionale. È indiscutibile che, accanto all’impegno dei patrioti, l’unificazione sia anche frutto di una particolare costellazione internazionale. Basandosi su un suo recente libro, Rusconi ha proposto di considerare con maggiore attenzione di quanto sia accaduto finora il nesso fra Piemonte e Prussia, personificato dai due creatori dell’unità nazionale: Cavour e Bismarck. Un legame fra Italia e Germania, che avrebbe poi avuto conseguenze molto rilevanti sulla successiva storia d’Italia e d’Europa. Ha parimenti sottolineato come allora, grazie a Cavour, l’Italia sia entrata di diritto nel concerto delle potenze europee.

Nella seconda parte del ciclo, dedicata a temi più attuali, sono stati analizzati alcuni dei nodi che hanno segnato la storia unitaria e allo stesso tempo caratterizzano il nostro presente. Il dualismo economico fra Nord e Sud è stato affrontato da Piero Bevilacqua, uno dei massimi studiosi di storia economica del Mezzogiorno e docente all’Università “La Sapienza” di Roma, mentre l’intreccio politico e culturale fra accentramento e autonomia è stato il tema oggetto della lezione di Raffaele Romanelli, docente all’Università “La Sapienza” di Roma. Infine il tema delle trasformazioni nel corpo della società italiana nel suo lungo percorso unitario è stato affrontato da Antonio Chiesi, sociologo dell’Università di Milano e specialista della stratificazione sociale, che per alcuni anni ha insegnato anche a Trento. Da queste tre lezioni che chiudevano il ciclo è emerso come mutamenti, progressi - se vogliamo - ci sono indubbiamente stati: il Sud è cresciuto sul piano economico e si è modernizzato, l’autonomia regionale ormai è un dato costitutivo dell’assetto statale. E non vi è dubbio che la società italiana è profondamente cambiata, adeguandosi ai modelli delle società occidentali moderne. Tuttavia, fattori storici di lungo periodo continuano a segnare il nostro presente e a condizionare il futuro: sviluppo e modernità non sono equamente distribuiti sul territorio nazionale, nel quale permangono sacche di arretratezza, sociale e culturale, prima ancora che economica.

In conclusione, ritengo che il livello delle riflessioni proposte, le discussioni che hanno innescato, l’interesse nella stampa locale, la partecipazione assidua del pubblico, confermino che la strada imboccata è quella giusta: attribuire all’università un’ulteriore funzione sociale (oltre alle molte che già svolge), di farsi promotrice di divulgazione ad alto livello per la società locale, in cui è immersa.