Martello da giudice e bilancia © beawolf

LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

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Conversazione con Mauro Politi: la sua esperienza come consigliere ONU e giudice della Corte
di Alessandro Manno e Milena Bigatto

Il 17 marzo scorso, in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi del master in Peacebuilding and Conflict Resolution, Mauro Politi, professore ordinario di Diritto internazionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, ha tenuto una lectio magistralis presso la Scuola di Studi internazionali dell’ateneo dal titolo “The International Criminal Court: Justice in Conflict Zones”.
In quella occasione abbiamo chiesto al professor Politi alcune impressioni sul suo lavoro e di approfondire alcune questioni di stringente attualità.

Consigliere giuridico della Rappresentanza Permanente presso l'ONU, membro della delegazione italiana alla Conferenza Diplomatica di Roma (1998) per l'istituzione di una Corte Penale Internazionale, giudice ad litem del Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia e giudice della Corte Penale Internazionale, sono solo alcuni dei ruoli da lei ricoperti. Quale tra questi importanti incarichi è stato il più stimolante?

Le soddisfazioni e le sfide sono un elemento comune di tutti questi incarichi. Ha menzionato quello di consigliere giuridico alla rappresentanza permanente. Ho avuto la fortuna di esserci in un periodo importante soprattutto per la definizione di questioni molto rilevanti anche per gli interessi dell'Italia, come la riforma del Consiglio di Sicurezza dell'ONU o la stessa creazione della Corte Penale Internazionale. È stato un periodo di grande impegno ed interesse. Naturalmente la Conferenza di Roma è stato un momento particolarmente impegnativo poiché aveva il compito di produrre lo statuto della Corte. Il giorno dell'approvazione [17 luglio 1998, ndr], vista la complessità dei negoziati, è stato molto gratificante per me. Poi l'esperienza alla Corte, in un certo senso, è stato il culmine di tutto questo lavoro svolto sul piano del negoziato e della consulenza giuridica in materia di diritto internazionale. Ma vorrei anche sottolineare che essere professore dell'Università di Trento mi dà la grande soddisfazione di trasmettere le mie esperienze agli studenti contando sul fatto che si interessino, ne traggano spunti di ricerca e, perché no, compiano anche scelta di vita importanti.

L'istituzione della Corte è senza dubbio un successo diplomatico e politico. Ma la partecipazione, ad oggi, di 111 stati è sufficiente per aspirare alla giurisdizione globale?

111 paesi sono un numero particolarmente rilevante. Non pensavamo che lo statuto potesse entrare in vigore così in fretta, dato che occorrevano 60 ratifiche, ed invece è avvenuto in pochi anni [1 luglio 2002, ndr ]. Ancor più significativo è il fatto che il processo di ratifica continui in modo regolare anche dopo l'entrata in vigore dello Statuto. Ciò significa che molti stati aderiscono non solo per una questione di principio, ma perché hanno visto la Corte all'opera rendendosi conto che i timori di una sua politicizzazione erano mal riposti. Certo, meglio sarebbe se i paesi fossero di più. Aspettiamo paesi importanti e seguiamo con attenzione l'evoluzione della posizione degli USA. È chiaro che l'assenza di tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza [USA, Russia e Cina, ndr] può creare dei problemi ma, per una Corte a vocazione 'universale', il fatto di essere arrivati a 2/3 circa dei membri della comunità internazionale è motivo di grande soddisfazione. Speriamo che continuando a lavorare bene, sia pure con problemi che tutti conosciamo, la Corte possa lentamente arrivare ad avere una partecipazione, se non 'universale', certamente più ampia.

Ma non vi è il rischio che emerga esclusivamente il ruolo politico della Corte e che prevalga l'effetto deterrente, peraltro assolutamente desiderabile, rispetto alla vera funzione giurisdizionale?

L'effetto deterrente è uno degli scopi indicati nel preambolo (la lotta all'impunità e la prevenzione dei crimini) e non vi è quindi incompatibilità tra le due cose. Ritengo che alcuni importanti effetti deterrenti si siano avuti a proposito di alcune situazioni dinnanzi alla Corte. È evidente che tale effetto conti molto, ma questo può solo venire da un'efficace azione svolta sul piano degli obiettivi primari, ovvero la repressione dei crimini e la punizione dei maggiori responsabili, nella speranza che ci possa essere anche un'efficace attività di prevenzione.

La posizione degli USA. L'amministrazione Obama, per quanto non abbia ancora espresso una posizione chiara su un'eventuale ratifica dello statuto, ha cambiato decisamente l'approccio verso la Corte, dall'ostilità aperta e dichiarata della precedente amministrazione alla cooperazione. È un processo in evoluzione nella direzione di una ratifica, pur sapendo che è il Senato ad essere decisivo in questo processo?

Lei ha descritto bene l'evoluzione della posizione americana, che indubbiamente c'è. Vi è un cambio di rotta e di toni. Con l'amministrazione Bush il dialogo era impossibile. Per lunghi periodi, oltre all'assenza alle riunioni, vi è stata un'ostilità attiva. Ma già verso la fine dell'era Bush cominciò un ripensamento dell'atteggiamento verso la Corte per evitare che anche la cooperazione nella lotta al terrorismo venisse compromessa. Questo processo prosegue con Obama; gli USA sono tornati, sia pure come osservatori, ai negoziati relativi alla prossima conferenza di revisione dello statuto. Questo però significa anche che, se questo processo proseguisse, gli USA potrebbero volere una riforma dello statuto per potervi partecipare. Verrebbero quindi forse rimessi in discussione i problemi relativi alla giurisdizione sui cittadini americani che già bloccarono i negoziati con gli USA alla Conferenza di Roma, ma è troppo presto per capire dove si potrebbe arrivare. Si può quindi parlare di un'evoluzione positiva, nonostante ci siano un aspetto positivo ed uno di timore che si torni a stancanti negoziati su aspetti giurisdizionali. Dubito inoltre che il presidente Obama voglia confrontarsi adesso con il Senato e coi vertici militari. Chissà, forse in un eventuale secondo mandato quando sarà per così dire più libero si potrà immaginare qualche passo ulteriore.

Concludiamo parlando del crimine di aggressione di cui si discuterà alla Conferenza di Revisione che si terrà a Kampala, in Uganda, a fine maggio. È davvero così importante, ma soprattutto utile definire questo crimine considerando che potrebbe allontanare dalla ratifica dello Statuto quegli stati che hanno già espresso la loro contrarietà?

Questa tesi ricorrente, tra l'altro condivisa da molte organizzazioni non governative, ipotizza un rischio di politicizzazione della Corte. Critica rispettabilissima e anche condivisibile che ha un certo fondamento. Io sono abbastanza neutrale seppure, a suo tempo, abbia lavorato molto sulla definizione del crimine di aggressione ma soprattutto sulle condizioni dell'esercizio della giurisdizione, e cioè sul rapporto tra la Corte ed il Consiglio di Sicurezza. Ovviamente i paesi del Consiglio di Sicurezza vogliono conservare la loro autorità ma molto dipenderà dalla determinazione dei paesi cosiddetti del terzo mondo. Vi è quindi battaglia a tutto campo ed è molto difficile capire cosa succederà. Tutto ruota intorno al punto se il Consiglio di Sicurezza debba controllare o meno l'azione della Corte in materia di responsabilità individuale per il crimine di aggressione e quindi se la primaria responsabilità indicata nello Statuto delle Nazioni Unite sia esclusiva del Consiglio di Sicurezza oppure no, e ciò è estremamente interessante. Non mi meraviglierei se durante la prossima Conferenza si arrivasse a chiudere il punto della definizione ma si lasciasse ancora aperto quello delle condizioni di esercizio della giurisdizione.