IL MONDO DEI SENZA PATRIA

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Una riflessione sull’opera di Herta Müller, la scrittrice rumeno-tedesca premio Nobel per la Letteratura 2009
di Fabrizio Cambi

“Lei ha avuto il grande coraggio di opporsi senza compromessi all’oppressione e al terrore politico. Merita il premio per il contenuto artistico di questa resistenza. Con la concentrazione della poesia e l’oggettività della prosa ha rappresentato il mondo dei senza patria”. Con questa motivazione l’Accademia delle Scienze svedese ha conferito il premio Nobel 2009 per la letteratura alla scrittrice rumeno-tedesca Herta Müller, un’autrice considerata finora quasi di nicchia, ma con i suoi picchi di notorietà raggiunti già con il primo volumetto di racconti “Niederungen” del 1982 (“Bassure”, Editori Riuniti, 1987) e il suo recente, intenso romanzo “Atemschaukel” (“L’altalena del respiro”, Feltrinelli, 2009) di imminente traduzione. Il conferimento del premio Nobel a Herta Müller, la cui narrativa è alimentata da una scrittura scabra, essenziale, ossessiva ma anche evocativa e immaginifica, permette di riesplorare regioni a noi geograficamente vicine segnate dai tragici eventi della storia del Novecento.

Nel mare omologante del villaggio globale che risucchia confini, annebbia la memoria e le tremende fratture della storia in un processo complesso, non sempre limpido, di assestamenti, integrazioni e nuovi sussulti dopo la caduta del Muro di Berlino e dei regimi dei paesi a socialismo reale, la Müller testimonia con la sua opera un doloroso percorso controcorrente nel quale le tragedie e le violenze della storia hanno determinato nel soggetto una condizione nomadica di estraneità a se stessi e di impossibile rimpatrio identitario della propria coscienza. La letteratura della Müller ci riporta alle sue radici, ai margini periferici del Banato, una regione che nel 1918 dopo la caduta dell’Impero austro-ungarico col trattato del Trianon fu divisa tra la Romania sudoccidentale, l’Ungheria e la Serbia.
Era una terra annessa all’Ungheria nel 1779 al tempo di Maria Teresa e colonizzata da 400.000 tedeschi, cosiddetti Svevi del Danubio, per lo più cattolici che insieme ai Siebenbürger Sachsen (Sassoni di Transilvania), immigrati già nel XII secolo, costituivano e in parte ancora costituiscono la minoranza rumeno-tedesca (o rumena di lingua tedesca), un microcosmo germanico blindato nelle sue tradizioni e codici di comportamento. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il Banato è passato interamente alla Romania.

Herta Müller nasce nel 1953 a Nitschidorf. Dopo il 1945 le proprietà del nonno, agiato agricoltore, erano state espropriate, la madre era stata internata per anni in un campo di lavoro in Ucraina, il padre, soldato delle SS, come molti rumeno-tedeschi che avevano aderito al Nazionalsocialismo, fa l’autista di camion. La Müller impara il rumeno a 15 anni, nel 1973 si iscrive all’Università di Timisoara, dal 1976 al 1979 fa la traduttrice in una fabbrica metalmeccanica dalla quale è licenziata per essersi rifiutata di collaborare con la Securitate, la spietata polizia segreta di Ceaucescu. Dal 1979 al 1987, anno in cui lascia la Romania per stabilirsi a Berlino ovest, fa lavori saltuari, ma soprattutto scrive, frequentando un gruppo di giovani autori che si richiamano alla letteratura tedesca ed europea contemporanea e rappresentano la tendenza della cosiddetta “soggettività impegnata”.

Il debutto letterario di Herta Müller avviene nel 1982 con la già citata raccolta di brevi racconti “Niederungen”, ampiamente censurati nell’edizione rumena e pubblicati due anni dopo nella Repubblica Federale Tedesca. In queste miniature ambientate nella terra d’origine si condensano tutti i mali e i disvalori della comunità tedesca, falsa, intollerante, bigotta, corrotta, perfida dietro la patina di ordine e perbenismo, rancorosa e omertosa riguardo al passato, rappresentata con toni incalzanti che ricordano le raggelanti requisitorie antiaustriache di Thomas Bernhard. Durissime furono le reazioni dei conterranei tedeschi che accusarono l’autrice di “Nestbeschimpfung”, di sputare cioè nel piatto in cui mangiava. Già in quest’opera prima si rappresenta il tema ricorrente di una doppia persecuzione incrociata e spesso sovrapposta, quella della propria comunità germanofona e quella del regime di Ceaucescu, fatta di delazioni, pedinamenti, minacce che caratterizza il primo romanzo “Der Fuchs war damals schon der Jäger” (La volpe era già allora il cacciatore, Amburgo 1992 – non edito in italiano).
Solo in apparenza paradossali sono la convivenza e la connivenza con i rumeno-tedeschi da parte del regime che degli abitanti del Banato esaltava la disciplina e l’ethos del lavoro mentre la comunità tedesca vedeva nei vincitori della guerra soprattutto gli espropriatori delle proprie terre ma pragmaticamente non poteva che collaborare con loro.

La scrittura scucita e dissociata della Müller e la sua lingua dell’estraneità, prima che cifra poetologica e stilistica, rivelano l’angoscia di un’esistenza mai sbocciata perché violata, minacciata, espropriata della propria sensibilità e individualità. “Il guardare il mondo per guardarsi dal mondo”, per usare una felice espressione di Adriano Sofri nella nota introduttiva a “Lo sguardo estraneo” (Sellerio, 2009), perché la percezione dell’essere braccati, rappresentata anche nella testimonianza recente “Cristina e il suo doppio” (Sellerio, 2010), è diventato un sesto senso che ottunde tutti gli altri, si traduce in una ossessiva registrazione di cose, luoghi e persone. Occhi e sguardi si trasformano in suoni e in parole, in nitidi fermo-immagine, combinandosi in sorprendenti e complessi nessi metaforici, in campi associativi inattesi, in sfondi cromatici ora luminosi ora funerei, per documentare le stazioni della paura, dell’annullamento, della fame di vita autentica, dell’attesa, dell’espatrio e dell’esilio. La prosa con la sua forza evocativa si liricizza e si fa poesia. Occorre sempre ripartire dall’inizio per dare parola alla propria “infanzia afasica” per mantenere vivo il passato come in “Herztier” (1994), uno dei suoi romanzi più poetici e coinvolgenti in cui la componente autobiografica si proietta nelle dinamiche possibili della lotta per la sopravvivenza morale ed esistenziale in un sistema totalitario. “Herztier”, la bestia del cuore, perché privato della parola, è stato tradotto in italiano con “Il paese delle prugne verdi” (Keller, 2009). Quattro giovani studenti, fra cui l’io narrante, vivono in un convitto e sono accomunati dal dolore per il suicidio di una ragazza di nome Lola. Animati da un incrollabile ideale di libertà, devono affrontare ogni intimidazione e vessazione della polizia segreta nella cupa Romania degli anni Ottanta. Le minacce, che non scompaiono neanche con l’espatrio, alimentano altra morte e suicidi misteriosi, ma in chi resta sopravvive un barlume di amicizia e di amore.

All’estraneità dell’esistenza, straniata e straniante, una seconda pelle, con la quale non ci collochiamo mai al centro ma sempre nel ruolo di osservatori esterni, corrisponde una lingua dell’estraneità. In cammino senza direzioni apparenti fissate da impressioni, che rimuovono presunte normalità e scavano nei volti e nelle macerie della storia, la Müller lascia il proprio paese nel 1987. Di questo passaggio dalla Romania a Berlino ovest la scrittrice ci dà una cronaca poetica nel romanzo “Reisende auf einem Bein” (In viaggio su una gamba sola, Marsilio, 2009) uscito nell’anno della caduta del Muro. L’esperienza traumatica della fuga, consumata nei sentimenti contrastanti della perdita, della presunta libertà conquistata e di una subitanea nostalgia, si intreccia con la precarietà dell’esilio in una Berlino straniata, vissuta fra il campo profughi, squallide abitazioni e strade rese anonime dalla consapevolezza di vivere dolorosamente il “rimpatrio” anche linguistico in Germania con un faticoso processo di riassimilazione e di ridefinizione identitaria.